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Quegli angoli del Gujarat che non immaginavo…

Quegli angoli del Gujarat che non immaginavo… 1024 699 Sonia Sgarella

Oggi ritorno col pensiero in Gujarat e lo faccio mentre leggo il libro sull’India di Stefano Cotone. “Ti racconto l’India…” mi venne regalato otto anni fa da una persona che si diceva essere “per nulla interessata a quel paese” e che colse l’occasione di un incontro  per passare a me ciò che a sua volta aveva ricevuto in dono. Forse la mancanza di tempo, una partenza imminente o chissà cosa non ricordo, mi fece commettere l’errore di riporre il libro sullo scaffale dei libri già letti: testi che ho divorato in pochi giorni perché troppo belli, libri che mi hanno dato ispirazione e insegnato un sacco di cose, che ho sottolineato, evidenziato e pasticciato in tutti i modi ma anche libri che ahimè, pur sforzandomi, non ce l’ho fatta a terminare, libri noiosi, pesanti, su cui ti ci addormenti.

Per uscire dal quel mondo e fare ritorno sullo scaffale dei libri da leggere, a casa mia di solito devono passare degli anni, quando per una coincidenza improbabile non mi sono rimasti più libri in lista d’attesa oppure perché, dimenticandomi totalmente di cosa parlasse il testo, decido di riprenderlo in mano e di ricominciare a sfogliarlo.

Ebbene, questo è quello che è successo con il libro di Cotone di cui mi sono resa conto di non aver mai letto neanche una riga nonostante mi fossi convinta di averlo fatto; pagine e pagine che ora scopro trattare tantissimi dei luoghi che ho visitato durante il mio ultimo viaggio in India e da cui avrei potuto forse trarre ispirazione o semplicemente qualche informazione in più. Niente di male tuttavia: secondo il mio punto di vista, avere troppe informazioni prima della partenza, può essere controproducente; lasciare che il luogo mi stupisca e mi sorprenda con cose di cui non ho mai sentito parlare né mai visto una foto è invece quello che preferisco.

Lo stato del Gujarat diciamo che a questo ben si presta: se ne sente infatti parlare ben poco e a meno a che non ci si informi di proposito, è raro che le notizie a riguardo ci piovano dal cielo. Seguendo questa filosofia dello “scoprire strada facendo”, allora sono almeno tre i luoghi che in questo ultimo viaggio in Gujarat mi hanno sorpreso e stupito perché di loro non conoscevo praticamente nulla: Junagadh, Mandvi e Diu Island.

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1. MANDVI

Mandvi è facilmente raggiungibile tenendo come base la città di Bhuj. Dalla stazione degli autobus prendete la prima corriera in partenza: la distanza tra le due località è di 59 km, il costo di 35 rupie e il tempo di percorrenza di circa 1h30.

Mandvi

Mandvi

Situata come Bhuj nella regione del Kutch ma affacciata al Mare Arabico, Mandvi è una piccola località punteggiata da splendidi edifici d’epoca color pastello e famosa ancora oggi in diversi paesi del mondo per il suo rinomato cantiere navale. Imbarcazioni di legno che possono superare i 20 metri di lunghezza vengono qui costruite da oltre 400 anni grazie alla tecnica non comune di centinaia di operai e maestri d’ascia che utilizzano un robusto legname (teak o iroko) proveniente dalla Malesia.

Mandvi

Fondata nel 1574 come un importante città portuale – la più importante prima dell’ascesa di Mumbai – Mandvi, nel corso della storia, superò in ricchezza la città di Bhuj costituendo un importante punto di transito soprattutto lungo le rotte vie mare: qui le imbarcazioni arrivavano dall’Africa, dal Golfo Persico, dalla Costa del Malabar (odierno Kerala) e anche dal Sud-Est Asiatico e ancora oggi diversi paesi si servono del cantiere navale di Mandvi per le loro flotte di pescherecci.

Mandvi

Per pranzo potete fermarvi in centro per un thali all’Osho Hotel oppure camminare fino alla spiaggia dove, nell’unica struttura turistica che troverete, c’è anche il ristorante.

A pochi chilometri da Mandvi, con una breve corsa in tuk tuk potrete raggiungere inoltre il Vijay Vilas Palace, la residenza estiva dei regnanti del Kutch datata 1929, oggi utilizzata per lo più come set cinematografico. Circondata da un immenso giardino, è il luogo ideale dove riprendersi un po’ dai rumori del traffico prima di fare ritorno a Bhuj.

Mandvi - Vijay Vilas Palace Mandvi - Vijay Vilas Palace Mandvi - Vijay Vilas Palace

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2. JUNAGADH

Se da Bhuj siete diretti sulla costa meridionale del Gujarat o verso il Gir National Park, Junagadh costituisce un interessante tappa intermedia. Da Bhuj c’è solo una compagnia di autobus privati che offre il servizio diretto notturno e al momento del mio viaggio si trattava della Jai Somnath. Chiedete comunque alle varie agenzie che si trovano in zona Bus Stand e vi verrà sicuramente detto.

Girnar Hill

Molti sono i pellegrini sia hindu che jaina che arrivano fin qui per intraprendere la scalata dei quasi 10.000 gradini della Girnar Hill e raggiungere stremati i templi che si trovano sulla sua sommità ma a parte questo la cittadina offre altro: un fatiscente quanto pittoresco centro storico, un suggestivo forte in rovina e due meravigliosi mausolei, anch’essi abbandonati al loro destino ma di incredibile fascino.

Junagadh

Mahabat Maqbara, così si chiama il sontuoso mausoleo del nawab Mahabat Khan II, affiancato da quello del vizir, ancor più decorato. Due sontuosi esempi di architettura euro-indo-islamica che si trovano proprio accanto alla moschea dove potrete andare a chiedere le chiavi nel caso in cui doveste trovare il cancello chiuso.

Junagadh Junagadh Junagadh

Un consiglio logistico: per visitare Junagadh e i suoi monumenti vi basteranno a dir tanto 3 ore. A meno che non siate arrivati fin qui per salire sulla collina sacra – in questo caso vi converrebbe aspettare la mattina successiva per cominciare all’alba – perdere troppo tempo da queste parti non ne vale davvero la pena. Se, come me, avete intenzione di raggiungere Junagadh partendo da Bhuj, sappiate che il vostro autobus, salvo imprevisti, raggiungerà destinazione molto presto, verso le 5.30 del mattino e vi converrà dunque aver già prenotato un hotel. Il Relief Hotel di Junagadh è un’ottima soluzione ma sappiate che per entrare a quell’ora vi farà pagare comunque la metà del costo dell’intera notte permettendovi di tenere la camera fino alle ore 12. Se avete riposato abbastanza, vi siete fatti una doccia e visti i monumenti, non ha senso dunque trattenersi oltre in città. Fossi in voi piuttosto prenderei un autobus diretto a Somnath (circa 2 ore al costo di 56 rupie) dove si trova uno dei templi più sacri del Gujarat e dell’India intera. Trovata una stanza mi godrei quindi, a partire dal tardo pomeriggio, l’atmosfera di questo sentito luogo di pellegrinaggio. Nell’edificio di fronte alla stazione degli autobus di Junagadh, all’ultimo piano, c’è un ottimo ristorante dove potrete rifocillarvi prima di partire per Somnath.

Somnath

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3. DIU ISLAND

Scrive Stefano Cotone nel suo libro: “Diu è stata l’ultima terra d’Europa in India che insieme a Daman controllava lo stretto di Cambay e con la lontana Goa costituiva la terna portoghese. Nel 1961 gli indiani con un colpo di mano se ne sono impossessati. Riconquistata si direbbe.”

Diu è un’isola, un mondo appartato con un’identità non ben definita: è tutto così ordinato e pulito che quasi non sembra di essere in India; le chiese e le case coloniali farebbero più pensare ad un villaggio del Portogallo ma qui nessuno parla il portoghese né tanto meno sembra conoscere esattamente i fatti che riguardano la propria storia, seppur non molto lontana. Chiedendo dunque a qualcuno qual’è la parola che definisce meglio questo mondo isolato dalla terraferma per soli pochi chilometri di mare, è quasi sicuro che vi risponderanno “whisky!”; sì perché Diu è  l’unico posto nel Gujarat proibizionista dove è permessa la vendita di alcolici.  Per evitare scene raccapriccianti di uomini ubriachi e giovani molesti sarebbe dunque meglio evitare di capitarci durante il weekend.

Diu

A parte visitare la zona del forte portoghese da cui avrete delle viste spettacolari sulla costa frastagliata dell’isola e a parte perdersi tra le viuzze della città vecchia per  raggiungere le chiese o passeggiare sul lungo mare della zona turistica, quello che a mio avviso è valso veramente la pena di arrivare fin qui, è stata l’escursione al villaggio di Vanakbara, situato nella parte opposta dell’isola.

Diu

Un piccolo villaggio di pescatori dove rimanere affascinati guardando lo svolgersi delle attività commerciali e di riparazione delle centinaia di barche variopinte che al mattino rientrano al porto per mettere in vendita il pescato. Un tripudio di colori in un angolo di India praticamente sconosciuto al turismo di massa e a cui, a maggior ragione, vale la pena di dedicare del tempo. 

Diu Diu Diu Diu Diu

Ah, dimenticavo: di seguito una foto della mia Guest House sull’isola di Diu. Ebbene sì, trovando posto potrete anche pernottare nell’edificio della vecchia Chiesa portoghese di San Tommaso, oggi sconsacrata. La vista dalla terrazza è forse la più bella della città!

Diu

Bundi: il Rajasthan nascosto e fuori rotta

Bundi: il Rajasthan nascosto e fuori rotta 1024 682 Sonia Sgarella

Bundi è tutto quello che dell’India raramente vi hanno detto ovvero che può essere un paese tranquillo dove a volte ci si riesce anche a rilassare. Traffico e confusione non sono certo le caratteristiche principali di questa piccola città del Rajasthan immersa nella cornice dei Monti Aravalli dove chi ci arriva, finisce di solito col volerci passare più giorni del previsto, rapito dall’atmosfera di rilassatezza e familiarità che la contraddistingue.

A Bundi difficilmente ci si capita per caso. Arrivarci o meno è una scelta intenzionale che spesso implica il dover rinunciare ad altre tappe più famose dello stato, cosa che non tutti sono disposti a fare. Sarà quindi forse per questo o per il fatto che in tanti ne ignorano addirittura l’esistenza, che la città di Bundi non richiama ancora grandi folle di visitatori, conservando quindi un sapore autentico, lontano dalle dinamiche turistiche che invece impazzano altrove.

Bundi è il Rajasthan nascosto che non ha niente da invidiare ad altre mete più gettonate: ha le case dipinte di cielo come quelle di Jodhpur, un lago come quello di Pushkar, un palazzo come Udaipur, un forte in rovina, un vivace bazar, i templi, le mucche; insomma a Bundi non manca davvero niente, anzi, conserva oltretutto dei dipinti murali unici, tra i più belli mai visti in India e, nei suoi dintorni, addirittura delle incisioni rupestri risalenti all’epoca preistorica.

Bundi

Bundi

Bundi Bundi

Per raggiungere Bundi basta prendere qualsiasi treno diretto a Kota o, in alternativa, un autobus governativo che, con massimo 5 ore di viaggio, la collega, per esempio, a Jodhpur, Jaipur e Ajmer (vicino a Pushkar). Dalla stazione dei treni di Kota Junction prendete un autorickshaw per il Bus Stand (70 rupie) e da lì, salite sul primo pullman diretto a Bundi. Il tragitto dura circa 45 minuti ed ha un costo di 25 rupie.

Le strutture ricettive si concentrano tutte nella zona del lago artificiale conosciuto con il nome di Nawal Sagar, nel lato opposto della città rispetto alla stazione degli autobus, in posizione estremamente tranquilla e silenziosa nonché a due passi dal palazzo e dal forte. Con un autorickshaw e 50 rupie arriverete a destinazione comodi comodi. Io ho pernottato alla Raj Mahal Guest House che vi consiglio per l’ottimo rapporto qualità prezzo (fatevi dare una stanza con vista lago) ma anche per la vicinanza al miglior ristorante della città, il Lake View Garden Restaurant. Il servizio è un po’ lento ma il cibo davvero spettacolare, la famiglia che lo gestisce molto carina e la posizione senza dubbio impareggiabile!

A meno che non arriviate tardi o siate distrutti dal viaggio, approfittate delle ore di luce che avete a disposizione il primo giorno per cominciare ad esplorare le strette stradine della città: azzurro, indaco e violetto sono i colori che la fanno da padrone, quelli che rendono Bundi ancora più accogliente di quanto già non sia. Disegni murali decorano le facciate delle haveli che si sviluppano in bellissimi cortili dove il tempo sembra essersi fermato, testimonianza di un antico splendore.

Bundi

Bundi Bundi Bundi

Spingetevi in direzione del Sadar Bazar, ovvero ripercorrete in parte la strada che avete seguito con il tuk tuk per raggiungere la guest house (praticamente l’unica esistente). Man mano che vi avvicinerete alla porta d’ingresso della città, il Chogan Gate, vedrete il sostituirsi dei negozi più turistici con quelli che invece non lo sono per nulla: venditori di cotone, di libri per la scuola, di bracciali (bangles) per signora e poi, qua e là, qualche tempio e baretto dove fermarsi a prendere un tè.

Bundi Bundi

Se siete amanti del chai non potete perdervi di certo una tappa da Krishna, un maestro nella preparazione! Lo troverete sicuramente accovacciato vicino al fornello intento a macinare spezie o a travasare latte bollente da un pentolino all’altro: un uomo di poche parole (non parla l’inglese quasi per niente) ma uno che con i suoi sguardi riesce ad esprimere tutta l’essenza di Bundi, una città dove il visitatore viene accolto come un amico, non come un possibile acquirente da spennare!

Krishna's Chai - Bundi

Il secondo giorno potete dedicarlo alla visita del forte, del palazzo, dei baoli e del lago Jait Sagar, dove si trova il Sukh Mahal, la residenza che per un breve periodo ospitò lo scrittore Rudyard Kipling il quale ivi trovò ispirazione per la stesura di Kim, uno dei suoi capolavori. ” Quello del Libro della Giungla” vi diranno tutti, così che anche non avendone mai sentito parlare, chiunque sappia a chi ci si sta riferendo.

Svegliatevi di buona mattina, fate colazione e dirigetevi verso il palazzo dove, all’ingresso, potrete acquistare anche il biglietto per il forte. Il costo complessivo se siete muniti di macchina fotografica sarà di 300 rupie. Cominciate a salire con l’obiettivo di fare prima tappa al Forte di Taragarh che si trova in cima alla collina alle spalle del palazzo. Seguite le indicazioni e aspettatevi che qualcuno vi venga a importunare per farvi da guida ma sappiate che chiunque sia il giovanotto il giochetto è sempre lo stesso: cercare di convincervi che sia molto facile perdersi e che continuare da soli sia pericoloso per la presenza di scimmie aggressive. Sapete, conosco gli indiani da ormai qualche anno e so quante cavolate sono disposti a raccontare per depistare il turista (non che siano gli unici!): le scimmie ci sono, è vero, ma basta munirsi di un bastone, non dargli fastidio e non portare con se cose da mangiare perché vi lascino stare. Per quanto riguarda il perdersi poi, non è neanche da mettere in conto essendoci un unico sentiero. Se l’ho fatto io che ero da sola penso lo possa fare chiunque. Attenzione, con questo non sto dicendo che la presenza di una guida non possa essere piacevole (lavoro come accompagnatore turistico e sarebbe una contraddizione se io lo pensassi!) ma che, se ne volete una, magari sarebbe meglio rivolgersi alla biglietteria. Dall’alto del forte che si estende su un’area boschiva quasi praticamente abbandonata a sé stessa, le viste sul palazzo, sulla città, sui Monti Aravalli e sul lago Jai Sagar sono spettacolari. Per arrivare fin qui meglio che indossiate pantaloni lunghi e scarpe con suola abbastanza spessa perché le spine dei rovi sono seriamente grosse e appuntite!

Bundi

Bundi Bundi

Bundi

Bundi

Riscendiamo ora verso il palazzo. Come vi dicevo prima, quando si sente parlare della “Terra dei Re”, ovvero del Rajasthan, i primi luoghi che vengono in mente sono Jaipur, la città rosa, Jodhpur, la città blu, Udaipur, la città bianca, Jaisalmer, la città nel deserto; mai si sente parlare di Bundi. Eppure se ora mi chiedete quale sia la mia città preferita dello stato vi risponderei proprio Bundi!

Bundi fu la capitale del piccolo regno di Haravati, governato dai discendenti di uno dei clan rajput tra i più rispettati, quello dei Chauhan che prese potere intorno alla metà del XIV secolo. Un labirinto di terrazze, di padiglioni e di sale meravigliosamente decorate con affreschi unici che rappresentano scene di corte o della mitologia riguardante la vita di Krishna, rendono questo luogo degno della descrizione che ne fece Rudyard Kipling il quale lo definì “un’opera dei folletti piuttosto che dell’uomo”

The palace of Bundi, even in broad daylight,

is such a palace as men built for themselves in uneasy dreams

– the work of goblins rather of men.

(Rudyard Kipling)

Il color turchese e il verde acqua prevalgono su tutte le altre tonalità, le miniature sono dei capolavori, l’architettura del palazzo nel suo complesso è in perfetto stile rajput e si adatta meravigliosamente alla morfologia della collina su cui sorge: insomma stiamo parlando del fiore all’occhiello di Bundi, del luogo che sarà capace di farvi sognare immaginando i tempi passati e tutto quello che poteva essere la vita al suo interno. Si racconta di un tesoro nascosto in passaggi segreti che mai nessuno fu in grado di trovare, di re, regine, di arte e seduzione: Bundi è una città magica ed eccovi una carrellata di immagini di quello che vi aspetta!

Bundi Palace Bundi Palace Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace

Bundi Palace Bundi Palace Bundi Palace

Dopo pranzo potete proseguire la visita con i pozzi della città, in particolare con il Nagar Sagar Kund, il Raniji-ki-baori e il Dhabhai Kund. Utilizzati da sempre per la raccolta delle acque piovane, alcuni di questi venivano utilizzati anche per celebrazioni religiose e quindi abbelliti come se fossero templi capovolti. Il Raniji-ki-baori, per il quale si paga un ingresso di ben 200 rupie, venne commissionato nel 1699 dalla regina Nathavati Ji, la più giovane tra le consorti dell’allora ex regnante Rao Raja Anirudh Singh.

Dhabhai Kund - Bundi Raniji-ki-Baori - Bundi Dhabhai Kund - Bundi

Una volta a Bundi è molto probabile che sentirete parlare del signor Kukki o che, frequentando il Lake View Garden Restaurant, addirittura lo incontrerete. Si tratta di colui che, divertendosi fin da bambino a fare l’archeologo pur non avendo mai studiato per ricoprire un tale ruolo, ha scoperto nei dintorni della città una serie innumerevole di pitture rupestri risalenti all’epoca preistorica. Intrepido, appassionato, divertente ed entusiasta sarà lui – o suo figlio – a potervi accompagnare alla scoperta di queste meraviglie antiche. Vi basterà chiedere le sue disponibilità e se possibile unirvi ad un gruppetto già in partenza per dividere il costo del taxi di 1.500 rupie. L’escursione durerà circa 5/6 ore e vi porterà a ridosso di un profondo e bellissimo canyon dove, al riparo di grotte naturali, si trovano alcuni di questi interessanti dipinti. Pace e silenzio vi accompagneranno per tutto il percorso che si svolgerà in parte a piedi ( circa un’ora tra andata e ritorno) attraverso una desolata pianura semi-arida.

Rock paintings -Bundi

Rock paintings -Bundi Rock paintings -Bundi

Nei dintorni è poi possibile ammirare i resti di quello che si pensa potesse essere un antico tempio: la statua nel Nandin, il toro di Shiva, ne sarebbe la prova. Accanto ad essa un altro reperto ritrovato da Kukki, un meraviglioso lingam risalente, secondo gli studi, all’epoca Gupta, ovvero circa al V-VI secolo!

Rock paintings -Bundi

Rock paintings -Bundi

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Davvero credo di avervi dato abbastanza buone ragioni per visitare Bundi ma ora sta a voi decidere se siete pronti ad abbandonare per qualche giorno l’itinerario turistico ed andare fuori rotta. Io dico che non ve ne pentireste!

Bhutan: un paese unico al mondo

Bhutan: un paese unico al mondo 1024 717 Sonia Sgarella

E’ da circa una settimana che, neanche a farlo apposta, guardandomi in giro su internet, trovo notizie, articoli e commenti che riguardano il Bhutan. Sarà forse una coincidenza, sarà che i tour operator hanno deciso tutti nello stesso momento di puntare alla sua promozione, risvegliando di conseguenza l’interesse della gente, sarà che non lo so; fatto sta che questo ha fatto venire voglia anche a me di parlarne.

Detto sinceramente, quanti di voi hanno mai considerato il Bhutan come una possibile meta di viaggio? In quanti si sono presi la briga di informarsi sul cosa ci sia o non ci sia in quel paese da visitare? In pochi, pochissimi. Il tutto è molto comprensibile direi, essendo che fino a pochi anni fa non se ne sentiva nemmeno parlare, anzi, forse qualcuno di voi lo sente addirittura nominare per la prima volta.

Bhe, lasciate che vi dica una cosa: non c’è niente di strano in tutto questo. Volutamente infatti il Bhutan, in passato, non ha fatto parlare di sé, preferendo rimanere in una posizione di isolamento che lo preservasse dalle influenze esterne, riuscendo così a mantenere intatte le proprie tradizioni secolari. Pensate che addirittura il Bhutan è stato l’ultimo paese al mondo ad introdurre l’utilizzo della televisione e questo solo nel 1999.

Apertosi al mondo del turismo nel 1974 e avvicinatosi quindi piano piano al mondo internazionale, il Bhutan continua però a rimanere un paese unico, con caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono sia dai paesi confinanti, sia, in generale, dal resto dei paesi asiatici. Un luogo leggendario e misterioso che solo ora incomincia ad attrarre la curiosità di tanti viaggiatori, i quali tuttavia sono frenati dagli alti costi imposti dal governo per poterci accedere.

Detto questo proverò comunque a raccontarvi della sua unicità e del perché un viaggio in Bhutan varrebbe l’investimento.

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L’ultimo regno himalayano

C’era una volta, non molto tempo fa, un uomo dal nome Ugyen Wangchuck il quale, con un abile mossa politica, riuscì a consolidare il proprio potere in Bhutan e a farsi eleggere sovrano ereditario con il titolo di Druk Gyalpo (Re Drago). Correva l’anno 1907 quando il Bhutan si trasformò quindi in una monarchia ereditaria che ancora oggi sopravvive come una delle più giovani esistenti. 5 sovrani si successero nel tempo apportando ciascuno alcuni cambiamenti in materia politica e fino ad arrivare al tipo di governo attuale che vede Jigme Khesar Namgyel Wangchuck a capo di una monarchia non più assoluta bensì democratica costituzionale. Il più giovane sovrano al mondo, nato nella capitale Thimpu nel 1980, rimane quindi l’ultimo sovrano regnante in tutta l’area himalayana dove altri stati, tra cui Nepal, Tibet, Ladakh e Sikkim, hanno invece dovuto volutamente o forzatamente modificare i loro assetti politici un tempo simili a quelli del Bhutan. Druk Yul, “la Terra del Drago Tonante” – come viene chiamato il Bhutan in lingua locale – rimane dunque l’ultimo regno himalayano ancora esistente a cui la  regina, la bellissima Jetsun Pema, ha appena dato un erede al trono.

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Un paese felice

Bhutan

Il Bhutan è l’unico paese al mondo dove, accanto al Prodotto Interno Lordo, si calcola anche la Felicità Interna Lorda. Questo parametro, introdotto negli anni settanta dal quarto re in carica, nonostante possa suonare come qualcosa di particolarmente astratto, si fonda invece su una serie di criteri ben precisi che valutano i progressi del paese in termini di soddisfazione per l’intera società. Tanto per intenderci il FIL viene calcolato su oltre 30 indicatori e 124 variabili che fanno riferimento a nove aree d’interesse: benessere psicologico, salute, uso del tempo, istruzione, multi-culturalità, buon governo, vitalità sociale, tutela della biodiversità e qualità della vita. Questi dati vengono poi utilizzati dai decision maker per indirizzare le politiche nazionali verso un miglioramento che comporti una ricerca d’equilibrio tra la felicità materiale e quella immateriale. Per i bhutanesi la ricerca della felicità è il sentiero da percorrere per evitare gli errori che sono stati fatti in passato da molti altri paesi i quali hanno considerato lo sviluppo solo in termini di incremento della ricchezza materiale. Sacrificare la propria cultura, il proprio ambiente e in generale la propria identità a favore dello sviluppo economico non ha reso le società felici e per questo, sostiene il governo bhutanese, è necessario ripensare al sistema in termini di sviluppo socio-economico sostenibile promuovendo la cultura locale, il buon governo e la salvaguardia dell’ambiente naturale.

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Architettura mozzafiato

Bhutan Rinchen

Pareti alte e spesse che salgono inclinandosi verso l’interno, un espediente che serva per fare sembrare l’edificio più imponente di quello che non sia in realtà: è questa la tecnica utilizzata da sempre nella costruzione degli dzong, i “monasteri-fortezza”, spettacolari cittadelle bianche e rosse, riccamente decorate sia all’esterno che all’interno con pannelli di legno scolpiti e dipinti, che dominano le principali città del paese.  Si tratta senza dubbio dell’elemento architettonico più caratteristico del paesaggio.

Punakha Dzong - Bhutan

Inizialmente utilizzati come vere e proprie roccaforti dagli antichi governatori regionali (penlop), gli dzong sopravvissuti agli incendi, costituiscono oggi sia la sede amministrativa dei 20 distretti in cui è diviso il paese sia, nella maggior parte dei casi, importanti centri religiosi.  Molti dzong sono quindi dotati di una torre di guardia e risultano spesso divisi in due ali: una monastica, dove si trovano i templi e gli alloggi dei monaci e una amministrativa, destinata agli uffici. In lingua dzongkha, la lingua ufficiale del Bhutan, il monastero è chiamato goemba mentre lhakang è la parola con cui ci si riferisce al tempio vero e proprio.

Monastero di Ura - Bhutan

Esclusi i casi all’interno degli dzong, requisito fondamentale del goemba, sede di comunità monastiche autonome, è quello dell’isolamento, grazie al quale i monaci possano trovare pace e solitudine. In un paese montagnoso come il Bhutan non stupisce dunque che alcuni di questi siano stati costruiti nelle posizioni più impensabili e mozzafiato come, per esempio, in cima a speroni rocciosi. E’ questo il caso del mitico Taktshang Goemba, la famosa “Tana della Tigre” di cui vi ho parlato in questo articolo.  In quanto a bellezza, devo ammetterlo, i monasteri bhutanesi si contendono il primato con quelli di Ladakh, Sikkim e Tibet, altrettanto magnifici ma è proprio l’architettura e la decorazione tipica di questo paese a renderli unici nel loro genere.

Taktshang Goemba - Bhutan

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Il Folle Divino

Chimi Lhakhang

Diciamocela tutta: in quale altro paese vi capita di trovare dipinti sulle facciate delle case dei peni giganti come questo nella foto? In Bhutan la cosa è molto frequente perché tra i santi più venerati figura Lama Drukpa Kunley, meglio noto come il “Folle Divino” o, in inglese, “The Divine Madman”. Un personaggio vissuto tra il 1455 e il 1529, Drukpa Kunley era convinto che le istituzioni, religiose e laiche, le quali imponevano determinati tabù e rigide norme di comportamento all’interno della società, fossero i maggiori ostacoli al risveglio dell’uomo.

Chimi Lhakhang

Egli predicava dunque la dissacrazione di tali tradizioni attraverso l’erotismo e l’ebrezza, nonché comportamenti fuori luogo ed eccentrici i quali risultavano tuttavia efficaci metodi spirituali. Soprattutto le donne a quanto pare, erano solite fargli visita all’interno del suo monastero, il Chimi Lhakhang, per ricevere la benedizione che spesso si espletava in forma di rapporto sessuale, volendo così dimostrare che la castità non era necessaria per raggiungere l’illuminazione.

Chimi Lhakhang

I mille falli che incontrerete in giro per il paese dipinti o appesi sulle case fanno dunque riferimento a questo personaggio che viene considerato anche il santo delle fertilità. All’interno del Chimi Lhakhang potrete anche voi ricevere la benedizione in versione meno oscena, ovvero lasciando che il monaco residente vi appoggi sulla testa un fallo di legno 🙂

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Abiti tradizionali 

Bhutan Rinchen

Uno degli aspetti più caratteristici del paese sono certamente gli abiti tradizionali che devono essere indossati obbligatoriamente nelle scuole, negli uffici governativi e nelle occasioni formali tra cui la visita a uno dzong, ad un tempio o la cerimonia d’apertura ad un torneo di tiro con l’arco. Uomini, donne e bambini indossano volentieri questi abiti che sono realizzati con tessuti bhutanesi e prendono il nome di gho e kira. Nonostante gli stivali tradizionali in feltro o pelle siano stati soppiantati da scarpe all’occidentale, vi capiterà di vederne di meravigliosi durante i festival e le occasioni cerimoniali.

Abiti Bhutan

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Il tiro con l’arco

Il tiro con l’arco, lo sport nazionale del Bhutan, non è in realtà soltanto uno sport: si tratta infatti di una celebrazione vera e propria a cui prendono parte, tra gli altri, danzatori, intrattenitori ed astrologi. Le gare di tiro con l’arco, a cui gli arcieri si preparano ovunque vi sia spazio sufficiente, rappresentano l’affermazione dell’identità nazionale ma anche un momento di intrattenimento popolare molto sentito. Si comincia sempre con una breve cerimonia per poi passare alla competizione che vede il  bersaglio posto ad una distanza di 140 metri. Ogni volta che il tiratore colpisce il  bersaglio i compagni di squadra si accingono ad eseguire una danza lenta, cantandone le lodi mentre nel caso in cui non lo dovesse colpire, verrà deriso dagli avversari. (Vedi il video cliccando sul link qui sotto). Le donne, pur praticando raramente lo sport, sono comunque molto attive nella parte di intrattenimento e costituiscono forse la percentuale più accanita del pubblico. Gli archi di legno sono stati piano piano sostituiti con quelli in fibra di carbonio ma comunque vengono ancora utilizzati e la loro produzione costituisce un’arte unica e molto ammirata.

https://youtu.be/PwPvViaT9C0

Tutto questo, insieme ad una natura sorprendentemente varia e a spettacolari feste religiose rendono il Bhutan un luogo unico e speciale che vale certamente la pena di visitare.

 

Deserti di sale

Deserti di sale 1024 690 Sonia Sgarella

Chiudete gli occhi e pensate al deserto. Qual’è la prima immagine che vi viene in mente? La maggior parte degli italiani – basta fare una breve ricerca su Google – tende ad associare questa parola all’immagine dei deserti africani, alle dune di sabbia color ocra scolpite dal vento, alle oasi, ai cammelli, ai beduini. Niente di strano ovviamente: in una visione Europa-centrica, i deserti africani sono quelli a noi più vicini e quindi, proprio per questo, i primi a cui rivolgiamo il nostro pensiero.

Marocco - Dune di sabbia di Merzouga

Marocco – Dune di sabbia di Merzouga

Provate però a cambiare zona geografica e a chiedere, per esempio, ad un abitante del Gujarat, in India, di che colore è per lui il deserto e vedrete che la risposta sarà completamente diversa. “Bianco!”, vi dirà, perché bianco è il colore del sale che ricopre quell’immensa e desolata distesa di terra conosciuta con il nome di White Desert. Siamo ai confini con il Pakistan, nell’estremità occidentale del paese, là dove, durante la stagione secca, le acque di un’immensa palude salata evaporano per il calore, lasciando emergere in superficie i sedimenti salini che altrimenti rimarrebbero sommersi. Il Great Rann of Kutch – così lo chiamano localmente – è un luogo leggendario in cui finalmente sono riuscita a mettere piede quest’anno! Devo ammetterlo, pensavo che raggiungerlo sarebbe stata un’impresa molto più ardua e invece, sarà per l’abitudine ai mezzi e alle distanze indiane, arrivarci mi è sembrato un gioco da ragazzi. Punto di partenza per la visita al White Desert è la piccola città di Bhuj, molto carina, piacevole e per nulla “avamposto” come invece uno si aspetterebbe guardando alla sua posizione sulla mappa dell’India.

Dalla stazione degli autobus di Bhuj, in concomitanza con la durata del Rann Utsav (di cui vi parlerò tra poco), ogni giorno alle 9.30 (indian time!) parte un bus governativo alla volta del White Desert. Dite che siete diretti a Dhordo e vi indicheranno dove andare. Il bus, trasformato per l’occasione in pullman turistico è a tutti gli effetti un servizio organizzato apposta per portare e riportare in città il gruppo vacanze che nel frattempo si è formato a bordo: l’atmosfera è quella di una vera e propria gita in cui il controllore, oltre a vendere i biglietti, assume il ruolo di tour leader, dando gli orari e i luoghi di incontro. La distanza tra Bhuj e il deserto è di 82 km e il costo del biglietto di 81 rupie (162 a/r). A circa metà strada tutti i passeggeri dovranno scendere dal pullman, mostrare i documenti alle “autorità” e acquistare il permesso di entrata (100 rupie). Trattandosi di zone di confine è obbligatorio essere in possesso di tali permessi per cui ricordatevi di portare con voi il passaporto!

L’ambiente si fa sempre più arido, gli arbusti sempre più bassi ed ecco che improvvisamente appare! Che cosa, il deserto? No! Ecco la pataccata indiana, il mega allestimento per il Rann Utsav che si tiene ogni anno da novembre a febbraio. Una fiera dell’artigianato, ecco di cosa si tratta. Tendoni, bancarelle, prodotti d’artigianato provenienti dai villaggi della regione, cibo, bevande, il tutto in grande stile. Cavolo ero venuta nel deserto in India e mi ritrovo invece a Rho-Fiera! Ebbene si, questa è l’India, quella che ti sconvolge, quella dove è meglio arrivare sempre privi di aspettative, pronti a prendersi quel che c’è! Al festival ci torneremo nel pomeriggio dove ci verrà data un’ora di tempo libero.

Runn of Kutch - India

Proseguiamo quindi fino al White Desert che finalmente incomincia a vedersi in lontananza ed è l’attrazione di punta: carretti trainati da cammelli che portano avanti e indietro chi proprio non ha voglia di farsi a piedi quei circa 2 km che dal parcheggio permettono di raggiungere la distesa di sale. Non se ne vede la fine, lo spettacolo del Rann of Kutch che si estende a perdita d’occhio verso il Pakistan è meraviglioso. Allontanatevi dalla folla camminando sul sale e riuscirete a sentirne il silenzio. Godetevi la bellezza di questo angolo remoto dell’India: il conduttore/tour leader vi ha dato due ore! 🙂

Runn of Kutch - India

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Ora, già che ci sono e visto che il bianco li accomuna, vi accennerò ad altri due meravigliosi deserti che trovate in Sud America, uno in Bolivia e l’altro in Brasile: mi riferisco al Salar de Uyuni e al Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses.

Salar de Uyuni

Era dicembre 2006 quando, all’età di 22 anni, mi ritrovai, quasi per caso, ad attraversare la più grande distesa di sale del pianeta. Incredibile è per me costatare come, nonostante il tempo passato, il ricordo di questi luoghi rimanga ancora vivido nella mia memoria. Non avevo gli occhiali da sole e mi ricordo benissimo di quanto la luce riflessa sul bianco del sale fosse accecante, era quasi impossibile tenere gli occhi aperti e se ci ripenso mi viene ancora da chiuderli. Una distesa bianca e infinita, l’orizzonte che si perde insieme all’orientamento, un paesaggio surreale figlio di migliaia di anni di sedimentazione. Circondata da montagne che da lontano appaiono come un miraggio, la pianura salata più vasta del mondo che si estende ad un’altezza di 3.653 metri, faceva parte, insieme al Salar de Copaisa, di quel sistema di laghi che oltre 10.000 anni fa ricoprivano tutta la regione. Non essendoci sbocco verso il mare, l’acqua proveniente dalle montagne si riversava infatti in questo immenso bacino il quale, prosciugandosi, lasciò sul fondo grandissimi depositi di sale.

Salar de Uyuni - Bolivia

Per attraversare il Salar de Uyuni è necessario unirsi ad un tour in 4×4, in partenza da Uyuni stessa oppure da Tupiza – più comoda se siete in arrivo dall’Argentina. I tour di solito hanno una durata di 3 giorni e 2 notti e possono essere organizzati direttamente in loco (anche la mattina stessa prima della partenza dei tour prevista di solito attorno alle 10.30) in una delle decine di agenzie che offrono quasi tutte lo stesso pacchetto. Suppongo che i costi dal 2006 ad oggi siano cambiati ma se allora pagammo 55 US$ a testa per tutto il tour (in una jeep da 6), credo che adesso il prezzo corretto si debba aggirare intorno ai 70/80 US$ al massimo.

Salar de Uyuni - Bolivia

Le tappe fondamentali nonché quelle seguite da tutte le jeep, sono le seguenti: Cimitero dei Treni, Hotel di Sale, Isola Incahuasi con i suoi cactus giganti, San Juan Bautista, Laguna Colorada, Gyser de Sol da Mañana, Laguna Verde e Arbol de Piedra. Con tutto questo arriverete a toccare gli oltre 5000 metri e a pernottare a oltre 4000. Ciò che è logico ma che spesso non viene reso esplicito in fase di prenotazione (soprattutto se fatta di fretta la mattina stessa) è che a 4.000 metri di notte la temperatura può scendere fino a -20° e che negli hostal non c’è riscaldamento. Detto questo è quindi fondamentale portarsi vestiti leggeri per il giorno – quando si possono raggiungere anche i 20° – ma molto caldi per la notte e se avete con voi un sacco a pelo portate anche quello (comunque gli hostal sono forniti di coperte pesanti). A questo aggiungete però anche il costume che vi servirà per fare il bagno nelle sorgenti di acqua termale a 40°. Fate conto di non lavarvi per tre giorni (se non in questa occasione) e quindi munitevi di salviettine igieniche. Occhiali da sole, una torcia per la sera (dopo le 21 rimarrete senza corrente), batterie di scorta per la macchina fotografica (che non avrete modo di caricare) e medicinali vari (soprattutto prodotti per liberare il naso qualora aveste difficoltà a respirare) è tutto ciò che vi sarà sicuramente utile.

Salar de Uyuni - Bolivia

Vi sono due scuole di pensiero su quale sia il periodo migliore per recarsi al Salar de Uyuni: una dice che sia molto meglio durante la stagione delle piogge (novembre-marzo) quando, ricopertosi di un sottile strato di acqua si trasforma in uno specchio tale da non riuscire più a distinguere la terra dal cielo; in questo caso però dovete mettere in conto di non poter svolgere il tour completo in quanto il terreno diventa impraticabile per le jeep che non si addentrano più di tanto. La seconda scuola di pensiero preferisce invece la stagione secca (agosto-ottobre) quando, pur mancando lo spettacolo dello specchio d’acqua, è possibile percorrerne la superficie. I mesi che vanno da aprile a luglio vengono considerati da evitare per via delle temperature troppo basse. Io vi dico, ci sono stata alla fine di dicembre che dovrebbe essere piena stagione delle piogge, eppure ho trovato l’ambiente completamente secco, non incontrando quindi problemi a svolgere il tour completo. Il consiglio? Fate come si farebbe in India: partite senza aspettative e prendete quel che c’è…sarà comunque un’esperienza indimenticabile!

Parco Nazionale dos Lençóis Maranhenses

Passiamo ora al Brasile: era lo stesso anno della Bolivia, il 2006, quando, ancora all’inizio di un viaggio che sarebbe durato più di tre mesi, mi ritrovai a calpestare la sabbia fine di dune bianchissime, quelle del Parco Nazionale dos Lençóis Maranhenses, un paesaggio che mai avrei pensato potesse esistere. Ero alle prime armi come viaggiatrice, avevo appena cominciato a scoprire le meraviglie di questo mondo ed ecco che subito mi ritrovo davanti agli occhi qualcosa di spettacolare.

Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses, Brasile

“Le lenzuola del Maranhão”, lo stato a nord-ovest del Brasile con capoluogo a São Luís, sono onde di sabbia che si distendono a perdita d’occhio creando un ambiente quasi surreale, costellato da pozze di acqua cristallina che si formano durante la stagione delle piogge. Ebbene si, nonostante in tanti lo chiamino deserto, tecnicamente la definizione non è corretta in quanto la pioggia qui cade eccome, superando i 1200 mm l’anno. L’acqua costituisce l’elemento fondamentale per la formazione di un tale ambiente: due fiumi vicini, il Parnaíba e il Preguiças, trasportano infatti la sabbia dall’interno del continente fino all’Oceano, dove le correnti la sospingono verso ovest. Gran parte dei sedimenti si deposita lungo i 70 chilometri di costa del parco dove, durante la stagione secca, un implacabile vento nordorientale spinge la sabbia verso l’interno, fino a 48 chilometri di distanza.

Parque Nacional dos Lençóis Maranhenses, Brasile

Tra gennaio e giugno le piogge riempiono le valli tra le dune di acqua, formano delle lagune da sogno in cui nuotano banchi di pesci argentati arrivati fin lì nel periodo più piovoso, quando le lagune si collegano ai fiumi che attraversano il parco. Nelle stesse lagune potrete fare il bagno anche voi. Per raggiungere il parco dovrete recarvi a Barreirinhas (260 km ad ovest di São Luís), una piccola e piacevole cittadina dove non sarà difficile trovare una sistemazione per la notte e dove, tramite qualsiasi agenzia del posto potrete organizzare la visita alle dune, effettuata esclusivamente in 4×4.

Avete visto che meraviglia? E voi, conoscete altri deserti bianchi da aggiungere alla lista?

I giganti di pietra del forte di Gwalior

I giganti di pietra del forte di Gwalior 1024 682 Sonia Sgarella

Dici Gwalior e sembrerebbe che in pochissimi sappiano dove si trovi; non sto parlando ovviamente di chi in India non c’è mai stato, sarebbe comprensibile, ma di chi l’India l’ha visitata più volte. Di queste persone ne ho incontrate tante: tutti sono stati in Rajasthan, tutti sono passati dal Taj Mahal, tutti si sono persi nell’atmosfera senza tempo di Varanasi, qualcuno ha anche visitato i templi di Khajuraho e si è goduto la tranquillità di Orcha; eppure quasi nessuno si è accorto che sulla mappa, proprio lì, tra queste principali rotte turistiche, si trova la città di Gwalior, una bellezza che in tanti si perdono e che giunge inaspettata per chi invece le dedica del tempo. Ammassata ai piedi di un’immensa rupe di roccia calcarea che domina il panorama della città, Gwalior non solo costituisce un’ottima tappa intermedia lungo il percorso ma vale la pena a prescindere e vi stupirà per il fantastico patrimonio artistico/culturale di cui è custode.

Gwalior Fort

A Gwalior, si dice, tutto cominciò con un re, un saggio ed un miracolo: c’era una volta infatti, racconta la leggenda,  un principe di nome Suraj Sen, della dinastia Rajput dei Kushwaha, che giunse fino alla cima di questo immenso altipiano durante una battuta di caccia. Assetato, il principe chiese un po’ d’acqua al saggio Gwalipa, che incontrò strada facendo e il quale, colpendo una roccia, ne fece sgorgare una sorgente di acqua fresca. Suraj Sen non solo bevve ma ne approfittò per rinfrescarsi senza sapere che quell’acqua miracolosa lo avrebbe curato dalla lebbra che gli affliggeva la pelle. Incredulo ai suoi occhi ed estremamente riconoscente nei confronti di Gwalipa, Suraj Sen chiese al saggio come avrebbe potuto ripagarlo dell’aiuto. Egli rispose: “crea una vasca per quest’acqua curativa e fai di questo luogo la tua capitale”. Così fece Suraj Sen nominando la nuova città Gwaliawar, “il regalo del saggio Gwalipa” che da qui cominciò la sua storia di ascesa e di successo.

Per raggiungere l’epoca d’oro di Gwalior bisognerà però aspettare ancora qualche secolo quando, a partire dal 1398, dopo un periodo di dominazione turca, il comando della città tornò nelle mani di un clan Rajput, quello dei Tomar. Fu infatti Man Singh Tomar (1486-1516), il quale commissionò la costruzione del meraviglioso Man Singh Palace – a detta dell’esploratore Cunningham “il più nobile esemplare di architettura domestica dell’India del Nord”- che fece guadagnare al Forte di Gwalior l’appellativo di “perla tra le fortezze dell’India”. Effettivamente il Chit Mandir, “il palazzo dipinto”, incanta il visitatore non solo per l’imponenza e per la sua posizione, ma soprattutto per la vivacità dei mosaici in ceramica che ne decorano le facciate, a partire da quelle in prossimità della Porta degli Elefanti (Hatiya Paur Gateway).

Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior

Il modo migliore per approcciare il Forte di Gwalior è quello di risalire il versante della collina accedendo dalla porta principale (Kila Gate o Gwalior Gate): innalzandovi lentamente di quota vi si apriranno infatti degli scorci magnifici sulla città e inoltre manterrete la giusta prospettiva sul palazzo che si svelerà a poco a poco davanti ai vostri occhi, man mano che vi avvicinerete.

Gwalior Fort Gwalior Fort Gwalior Fort

Lungo il percorso vi troverete di fronte a qualcosa di veramente interessante: un cartello vi indica la direzione per raggiungere lo “Zero più antico”, ovvero il punto in cui il numero zero si trova rappresentato, per la prima volta nella storia, nell’attuale forma numerica – tanto per intenderci come un tondino. Un’epigrafe custodita all’interno di un piccolo tempio risalente al IX secolo d.C. – il Chaturbhuj Temple – dimostrerebbe quindi che lo zero, che noi conosciamo come numero arabo, sia stato invece una creazione indiana. Impossibile definire dove, quando e da chi esattamente venne inventato ma fatto sta che quella di Gwalior risulti essere l’iscrizione databile più antica. Chiedete al custode di aprirvi la cella del tempio e guardate alla destra di Vishu: provate ora a cercare tra quelle lettere incomprensibili il numero 270. Vi stupirete nel vedere quanto questo assomigli ai nostri caratteri numerici!

Chaturbhuj Temple - Gwalior Chaturbhuj Temple - Gwalior Chaturbhuj Temple - Gwalior

Pagato quindi il biglietto d’ingresso al palazzo, accedete al cortile principale dove ad incantarvi saranno i rilievi sulle colonne e le griglie perforate dietro alle quali si nascondevano le donne per assistere agli spettacoli musicali senza essere viste. Nonostante gli interni risultino molto più sobri, anche qui si ritrovano splendide decorazioni in ceramica che donano vivacità e colore alla pietra di questo palazzo il quale venne abitato successivamente da alcuni imperatori Mughal, che ne trasformarono i piani sotterranei in prigioni reali.

Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior Man Singh Palace - Gwalior

Continuate ora verso i Templi Sasbahu che troverete con circa 15 minuti di cammino lasciandovi il palazzo alle spalle e proseguendo oltre il chiosco delle bevande, mantenendo sempre la sinistra. Risalenti all’XI secolo, i templi sono riccamente decorati e ricordano nello stile alcuni santuari del Gujarat tanto che gli studiosi concordano oggi sul fatto che gli artisti dovessero provenire proprio da quella zona dell’India. Dai templi, che sono un luogo di pace e per nulla frequentato, vi si apriranno delle viste magnifiche sulla città.

Sasbahu Temples - Gwalior Sasbahu Temples - Gwalior Sasbahu Temples - Gwalior

Sasbahu Temples - Gwalior

Ora volendo continuare con la visita dei templi all’interno del forte potreste proseguire fino al Gurudwara Data Bandi Chhod e al Teli Ka Mandir ma se siete stanchi, affamati e il sole comincia ad essere troppo forte, ritornate verso il chiosco delle bevande a da lì prendete la strada in discesa che conduce fino alla Porta Urwahi. E’ proprio qui, lungo il percorso, che realizzerete quanto sia valsa la pena fermarvi per una visita a Gwalior: se di palazzi e di templi infatti ne avrete già visti una serie infinita, di trovarsi di fronte a giganti di pietra non capita tutti i giorni!

Scavati nella roccia sui versanti delle montagne che formano la Valle di Urwahi, le imponenti statue monolitiche dei 24 santi Jainisti, i cosiddetti Thirthankara (“Costruttori di Guado”), sono uno spettacolo che vi lascerà increduli ed entusiasti al tempo stesso: la più alta raggiunge i 19 metri e rappresenta Adinath, il “Signore del Principio”, in posizione eretta, mentre ve ne sono altre che li vedono seduti nella classica “posizione del loto”. Gli studiosi oggi concordano nel datare attorno al XV secolo questa grandiosa opera d’arte che fu molto probabilmente commissionata da una regina Tomar la quale fu una fedele Jaina o forse, più semplicemente, rimase affascinata da questa religione tutta incentrata sul concetto della non-violenza.

Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior Jain Statues - Gwalior

Dove dormire: in zona stazione vi sono diverse opzioni. Io sono stata all’Hotel Mayur che fa parte del gruppo OYO Rooms. 550 Rupie la singola.

Dove mangiare: decisamente da provare per colazione e pranzo è l’Indian Coffe House, su Station Road. Aperto fino alle 19.00.

L’incanto di Orchha

L’incanto di Orchha 1024 684 Sonia Sgarella

Sono arrivata ad Orchha in un pomeriggio di primavera, quando ancora la campagna del Madhya Pradesh è punteggiata dai meravigliosi fiori arancioni degli alberi di Palash; sono arrivata ad Orchha perché mi avevano detto che mi sarebbe piaciuta ma mai avrei pensato di rimanerne così affascinata.

Albero di Palash - Orchha

Un piccolo villaggio dove dimenticarsi per qualche giorno dei mezzi di trasporto, non perché non ve ne siano ma perché non ne avrete bisogno. Tutto ad Orchha è facilmente raggiungibile a piedi: il fiume, i templi, i palazzi e i cenotafi; ad Orchha vedrete l’incanto dei tempi passati rivivere nella roccia dei suoi monumenti i quali raccontano una storia, quella dei sovrani della dinastia Bundela e delle loro regine.

Cominciate presto al mattino, esattamente alle 8 (o alle 9 se da ottobre a febbraio), quando all’interno del Ram Raja Temple si riuniscono i devoti per la puja al dio Rama. Racconta la leggenda che questo splendido edificio piastrellato con marmo bianco venne commissionato nel XVI secolo dal sovrano Madhukar Shah come palazzo per la sua regina, Rani Ganesh. Fu proprio lei, anche chiamata Kamla Devi, che di ritorno da un viaggio ad Ayodhya portò con sé l’immagine sacra del grande dio la quale, una volta appoggiata all’interno del palazzo, non poté più esserne rimossa. Il palazzo venne quindi trasformato in un tempio che costituisce oggi un importante luogo di pellegrinaggio per i devoti di Rama, settima incarnazione di Vishnu, venerato qui anche in qualità di re (raja) e insignito quindi del turbante reale. Accanto a lui la consorte Sita come regina e il fedele fratello Lakshman vestito da principe.

Rama Raja Temple - Orchha Rama Raja Temple - Orchha

A parte il Ram Raja Temple che, in quanto luogo di culto attivo, non è a pagamento, tutto il resto, ad Orchha, lo è. Il biglietto cumulativo per la visita ai monumenti può essere acquistato solo all’ingresso della cittadella, oltre il ponte Bir Singh, ad un costo di 250 rupie più 25 per l’utilizzo della macchina fotografica. Il biglietto ha la validità di un solo giorno per cui preparatevi all’esplorazione con una colazione abbondante e cominciate subito con il complesso dei palazzi reali, quando ancora le comitive di gruppi organizzati non hanno raggiunto la cittadina.

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RAJA MAHAL PALACE

Costruito sulla cima di una collinetta, il solido e squadrato palazzo reale, il primo ad essere edificato in posizione strategica sull’isola che sorge alla confluenza tra i fiumi Betwa e Jamni, costituisce un’ottima introduzione allo stile architettonico dei sovrani Bundela: grandi cortili su cui si affacciano i balconi intarsiati degli appartamenti reali e una serie di passerelle ad incastro che si innalzano fino a permettere l’accesso ai livelli più alti culminanti con meravigliosi padiglioni a cupola e torrette.

Raja Mahal - Orchha Raja Mahal - Orchha

Nonostante la struttura risulti dall’esterno estremamente sobria e priva di particolari decorazioni, basta soffermarsi ad ammirare le stanze interne e la profusione delle magnifiche pitture intonacate sulle pareti e sui soffitti, per immaginare l’opulenza che doveva trasmettere questo luogo al tempo di Madhukar Shah (1554-1592 d.c.) che qui visse insieme alle sue “favorite”. Alcuni di questi fregi, soprattutto quelli riparati dalla luce del sole, si trovano ancora ancora oggi in perfetto stato di conservazione permettendo così di riconoscere chiaramente immagini che raccontano delle numerose incarnazioni di Vishu, delle imprese di Rama e Krishna, nonché scene di caccia e momenti di festa.

Raja Mahal Paintings - Orchha Raja Mahal Paintings - Orchha

E’ inutile dirvi quanto dai livelli più alti la vista sia magnifica per cui altro non vi resta da fare che munirvi di tutto lo spirito d’esplorazione di cui siete dotati e perdervi tra i mille passaggi, divertendovi a scovare gli angoli più nascosti di questo intricato capolavoro.

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JEHANGIR MAHAL PALACE

Se l’ingresso al Raja Mahal mi aveva stupito, il primo impatto con il Jehangir Mahal mi ha lasciato letteralmente senza parole! La stessa reazione dovette evidentemente averla anche l’architetto britannico Edwin Lutyens, incaricato di progettare l’impianto urbanistico di New Delhi e che si dice aver preso ispirazione proprio da qui. Commissionato nel 1605 da Bir Singh Deo, figlio di Madhukar Shah, nonché “il più grande sovrano di Orchha”, il Jehangir Mahal venne concepito come biglietto di benvenuto per la visita a corte dell’imperatore Mughal che qui si recò in un’unica occasione. Sicuramente il più ammirato, il palazzo appare molto più ricco di decorazioni rispetto al Raja Mahal, a partire dal grandioso portale con elefanti che consente l’accesso al cortile principale.

Jehangir Mahal -Orchha

Motivi geometrici e floreali composti con piastrelle di ceramica color turchese ne decorano ancora le facciate mentre all’interno una profusione di decorazioni lignee ne abbellisce i balconi e le terrazze, sovrastati da quelle cupole a cipolla che sono caratteristica peculiare dell’architettura indo-islamica. L’insieme di tutti questi elementi esprime senz’altro un senso di straordinaria ricchezza.

Jehangir Mahal - Orchha Jehangir Mahal- Orchha Jehangir Mahal - Orchha

La vista sulla campagna sconfinata e sugli altri monumenti di Orchha, anche in questo caso, vale senza dubbio la salita ai piani più alti. Da quassù inoltre vi farete un’idea più chiara dei prossimi passi da percorrere.

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RAI PRAVEEN MAHAL

Proseguite la visita passando accanto al Shyam Daua Ki Kothi e al Rasaldar Ki Kothi, alle stalle dei cammelli e degli elefanti, per arrivare quindi al palazzo di Rai Praveen, la leggendaria concubina di Raja Indramani (1672-75) che fu vassallo dell’imperatore Mughal Aurangzeb. Secondo i racconti Rai Praveen fu una bellissima danzatrice, cantante, musicista e poetessa che risiedette in questo palazzo dove all’interno si conservano ancora magnifici dipinti. Bellissimi gli scorci sul Jehangir Mahal.

Rai Praveen Mahal (2) Rai Praveen Mahal - Orchha

Da qui è possibile continuare verso una serie di altri piccoli monumenti che troverete seguendo il sentiero di campagna, oltrepassata la porta Shahi Darwaja. Tra questi il Teen Dasiyon Ka Mahal, ovvero il “palazzo delle tre inservienti” e il piccolo Shiv Temple.

Teen Dasiyon Ka Mahal - Orchha

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CHATTURBHUJ TEMPLE

Forse l’edificio più appariscente per la verticalità delle sue forme e ben visibile da ogni angolo della cittadina. Costruito su una grandissima piattaforma di pietra e raggiungibile attraverso un’ampia scalinata, il tempio venne edificato per custodire l’immagine sacra di Rama trasportata ad Orchha dalla Regina Ganesha e che invece non fu più possibile spostare dal Ram Raja Temple, dove si trova collocata ancora tutt’oggi.

Chatturbhuj Temple - Orchha

Chatturbhuj Temple - Orchha

Unico nelle sue forme che vennero studiate da diversi architetti e i quali ne misero in rilievo le particolarità: pianta cruciforme come quella di una chiesa cristiana, assenza di fregi e ornamenti come l’interno di una moschea, presenza di una cella sacra e della sala per le preghiere come nei templi hindu. L’unica interpretazione logica sarebbe che la costruzione venne commissionata a degli architetti musulmani i quali inserirono caratteristiche tipiche dell’arte islamica in un tempio che venne ideato per ospitare una divinità indiana, dedicato alla figura di Vishnu con quattro braccia. Munitevi di una torcia per risalire la stretta scalinata che vi porterà all’altezza delle guglie, fino alla terrazza panoramica da cui vi garantirete una visuale a 360° su tutta Orchha.

Chatturbhuj Temple - Orchha

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LAKSHMINARAYAN TEMPLE

Dopo aver ripreso le forze con una meritata pausa pranzo, continuate la visita verso il Lakhsminarayan Temple che custodisce le pitture più raffinate e meglio conservate di tutta Orchha. Costruito nel 1622 e commissionato dallo stesso Bir Singh, il tempio, che nella struttura ricorda più l’aspetto di una fortezza è famoso per la particolarità delle pitture, le quali raccontano storie sia leggendarie che secolari.

Lakshminarayan Temple (3) Lakshminarayan Temple (4) Lakshminarayan Temple (6) Lakshminarayan Temple (7)

Episodi dei poemi epici, miti riguardanti varie divinità ma anche scene di battaglia con protagonisti i membri dell’esercito britannico, adornano le pareti e i soffitti dei corridoi interni di questo tempio, trasformando il luogo in un interessantissimo e curioso concentrato di opere artistiche dove perdersi per almeno un’ora, lasciando così trascorrere le ore più calde del giorno. Tornando verso il centro godetevi la magnifica vista panoramica.

Lakshminarayan Temple (9)

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BUNDELA CHHATRIS

Dirigetevi ora verso l’ultima meraviglia di Orchha, anch’essa inclusa nel biglietto cumulativo d’ingresso ai monumenti: sono i cenotafi dei membri della dinastia Bundela che si ergono fieri lungo la riva destra del fiume Betwa. Tra questi il più imponente  è quello di Bir Singh Deo ma ve ne sono ben altri quindici tra cui potrete intrattenervi fino all’ora di chiusura, aspettando il tramonto.

Centoafi Orchha

Un giorno ad Orchha comunque non basta, la cittadina deve essere vissuta con calma, bisogna avere il tempo di perdersi tra le casette colorate e tra i suoi bazar. Se siete quindi riusciti ad ultimare la visita ai suoi monumenti in un solo giorno, tenetevene almeno un altro per passeggiare tranquilli tra le sue vie, parlare con gli abitanti (i quali vorranno tutti invitarvi a casa loro) e magari, perché no, se il livello dell’acqua lo permette, godervi il fiume facendo water rafting.

Se state cercando una sistemazione super budget ma dignitosa (intendo con tanto di acqua bollente e lenzuola pulite!) andate alla Temple View Guest House, a due passi dal Ram Raja Temple. Io ho pagato 3 euro a notte! 🙂

Tra arte e tantra: la seducente perfezione dei templi di Khajuraho

Tra arte e tantra: la seducente perfezione dei templi di Khajuraho 1024 684 Sonia Sgarella

Mi è stato insegnato all’università che per raggiungere i vertici di perfezione nella scultura e nell’architettura templare dell’India del Nord, bisogna mettersi in cammino verso il piccolo villaggio di Khajuraho, nello stato del Madhya Pradesh. Capite dunque perché – rispondo a quanti me lo hanno chiesto – io non ci fossi mai stata prima? I templi di Khajuraho costituivano per me l’apice di un percorso di studi, una meta da raggiungere ben preparata, la “ciliegina sulla torta” che volutamente ho lasciato come una delle ultime tappe per un ennesimo viaggio in India.

I templi dell’India, come già vi raccontavo in altre occasioni, si dividono in tre categorie principali, nagara, vesara e dravida, ognuna delle quali con le sue peculiarità architettoniche più o meno marcate e al cui interno ricadono le varianti locali di ciascuna: negli Shilpashastra, antichi trattati di architettura e scultura, il tempio classico dell’India del Nord, viene definito con il termine nagara (“cittadino”) che vede come elemento caratteristico e marcatamente visibile, la presenza di una guglia torreggiante (shikhara) a sovrastare la cella custode dell’immagine sacra. Khajuraho è il luogo che conserva le forme più compiute e più eleganti in assoluto di tutti i templi nagara sopravvissuti fino ai giorni nostri!

Kandariya Mahadeo Temple - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Ancora oggi un piccolo villaggio immerso nella meravigliosa campagna dello stato del Madhya Pradesh, Khajuraho, l’antica Khajjuravahaka (“quella che ha tanti alberi di palma”), fu un tempo la capitale del regno dei Chandella, i quali si affacciarono alla storia verso l’inizio del X secolo, prosperando nella regione del Bundelkhand (oggi divisa tra Madhya e Uttar Pradesh) fino all’inizio delle conquiste islamiche, intorno al 1200. Il mecenatismo di questi sovrani, per i quali la costruzione di un tempio era il mezzo privilegiato per affermare, legittimare e glorificare il proprio potere, li portò a commissionare in questa zona oltre 80 templi, di cui se ne conservano intatti ancora una trentina, uno più bello dell’altro!

Simbolo della dinastia Chandella - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Simbolo della dinastia Chandella – Gruppo Occidentale – Khajuraho

Compatti e slanciati verso il cielo, i templi di Khajuraho si distinguono per l’enfasi sulla dimensione della verticalità che viene data sia dalla presenza dello svettante shikhara sia dall’alto basamento su cui poggiano e sul quale il visitatore deve salire per poter compiere la circumambulazione rituale (pradakshina) prima di accedere all’interno, verso la cella sacra. Si racconta che originariamente i templi di Khajuraho fossero come isole, circondati dalle acque di un lago ornamentale di cui il famoso viaggiatore marocchino Ibn Battuta, che arrivò in India nel XIV secolo, ne racconta la grandezza. Oggi purtroppo di quel lago non vi è più traccia ma, in compenso, i templi – così come è tipico di tutti i monumenti protetti dall’Unesco – si trovano immersi nel verde di curatissimi giardini dove è piacevole passeggiare.

Kandariya Mahadeo Temple - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Se la perfezione delle forme architettoniche ha garantito ai templi di Khajuraho un posto d’onore nella storia dell’arte dell’India, è tuttavia la straordinaria ricchezza della decorazione scultorea a rendergli il titolo di capolavoro: la sensualità e la morbidezza delle forme, l’eleganza dei dettagli ma sopratutto il tema erotico di alcune immagini sono ciò che porta i templi ad eccellere nel loro genere, ciò che stupisce il visitatore e che ha reso Khajuraho una delle mete turistiche più frequentate di tutto il Subcontinente, il luogo dove divinità dell’induismo, provocanti “bellezze celesti” (surasundari) e animali dalle forme fantasiose, condividono le pareti esterne del tempio con uomini e donne in esplicito atteggiamento erotico, segno che al tempo il sesso veniva considerato come un atto da non trascurare, anzi, come un arte da coltivare e valorizzare!

Erotic Khajuraho

Scuture erotiche Khajuraho Scuture erotiche Khajuraho

Si è dibattuto a lungo sul significato che volessero trasmettere i committenti con questa profusione di rilievi raffiguranti amanti in ogni genere di atto sessuale, scene di gruppo, a volte addirittura con l’inclusione di animali. La domanda che sorge spontanea è: come possono queste immagini conciliarsi con la sacralità dell’edificio religioso su cui si trovano? Per poter dare una risposta a questa domanda è necessario elencare ed approfondire alcuni punti fondamentali:

Innanzitutto, nonostante la questione sessuale in India sembri essere un tabù più oggi che nell’antichità, questo non significa che l’induismo sia una religione tutta improntata all’ascetismo né tanto meno che preveda la castità per i suoi devoti; al contrario, all’amore umano in tutte le sue sfaccettature viene riservato un ruolo molto importante nella dottrina, la quale vuole infatti che ogni uomo debba perseguire tre scopi nella vita (trivarga), di cui kama, parola che significa sia “amore” che “desiderio sessuale”, è uno di essi. Non solo: come agli altri scopi (artha, il benessere economico e dharma, la legge sacra), anche al kama è dedicata una vasta letteratura, che vede nel celebre Kamasutra il suo massimo rappresentante. Composto da Vatsyayana attorno al III secolo d.c., il Kamasutra vuole essere un manuale al raggiungimento della felicità amorosa, non soltanto legata al desiderio sessuale – cosa che in tanti pensano erroneamente – ma piuttosto sensuale, ovvero collegato anche alla musica, al buon cibo, ai profumi e così via, in un contesto sociale colto ed elegante.

Kamasutra - Khajuraho

L’immagine delle donna e la sua associazione a fertilità e abbondanza è inoltre considerata fonte di buon auspicio e per questo, la sua rappresentazione sui templi, è resa necessaria. Si ritrova scritto nei testi: “Come una casa senza una moglie, un monumento senza una figura femminile sarà di qualità inferiore e non porterà ad alcun frutto”. I templi di Khajuraho contano definitivamente più sculture di immagini femminili che di divinità: alte, snelle, provocanti e maliziose ma mai volgari, dalle forme sinuose e abbondanti, con gli occhi allungati, i gioielli vistosi e le più varie acconciature, le “bellezze celesti” di Khajuraho, con le loro posture sensuali, trasmettono calore ed esprimono vitalità, quasi fossero reali. Così come la donna è simbolo di fertilità, allo stesso modo dunque, si ritiene lo sia anche la coppia (mithuna), considerata fonte di buon auspicio. A provarlo il fatto che immagini di coppie, si ritrovano già in contesto buddhista, risalenti al I secolo d.c.

Surasundari - Khajuraho

Surasundari - Khajuraho

Mithuna - Khajuraho

La sessualità umana, nel corso dei secoli, comincia ad essere valorizzata come uno strumento volto al superamento della dualità dei sessi e al ricongiungimento di questi  nell’Unità Assoluta, ovvero come fonte di risveglio spirituale e mezzo per il raggiungimento della liberazione, cosa che trova ampio supporto nella corrente salvifica e ritualistica definita col nome di tantrismo, affermatasi nel corso del I millennio sia in ambito induista che in ambito buddhista. Secondo questa concezione filosofica l’unione sessuale della coppia umana – intesa letteralmente o metaforicamente a seconda delle sette – altro non è che uno strumento evolutivo della coscienza, una forma di meditazione dove il corpo possa servire da mezzo salvifico. Durante il X secolo, nel periodo di inizio della costruzione dei templi di Khajuraho, sembrerebbe che la setta tantrica dei Kaula, devoti di Shiva, fosse all’apice della sua popolarità e che gli stessi sovrani Chandella ne fossero patroni. I maestri Kaula sostenevano la pratica di rituali esoterici con l’ausilio delle cosiddette “cinque cose che cominciano per emme” (panchamakara), ovvero matsya, il pesce, mamsa, la carne, madya, l’alcol, mudra, i cereali abbrustoliti e ovviamente maithuna, l’unione sessuale, tutti elementi considerati altamente contaminati in ambito ortodosso brahmanico.

Kamasutra - Khajuraho

Kamasutra

E’ comunque importante notare che le immagini erotiche non coinvolgono mai figure divine e sono rappresentate solo all’esterno del tempio il quale, con la sua struttura e il programma scultoreo che lo adorna, si propone di essere un’immagina complessiva del mondo, se non addirittura dell’universo al cui centro, secondo la tradizionale cosmologia hindu, si innalza la montagna sacra del Monte Meru, rappresentata in questo caso dallo shikara torreggiante. All’esterno del tempio viene dunque rappresentata la vita di tutti i giorni ed è proprio qui che gli scultori si sbizzarrirono nella rappresentazione dell’immagine femminile intenta nelle più svariate attività: c’è quella che si specchia, quella che si trucca, quella che si toglie le spine dal piede, che si pettina, che scrive, etc etc. e tra queste le immagini erotiche, forse concepite per diversi livelli di comprensione: uno più popolare, riconducibile alla teoria del trivarga e uno più esoterico, riconducibile invece alla visione tantrica. Dall’esterno manifesto all’interno non-manifesto, l’ingresso al tempio vuole simboleggiare la ricongiunzione con il divino che è lo scopo di tutti i percorsi spirituali.

Surasundari - Khajuraho

Surasundari - Khajuraho

Surasundari

Non vi è dunque una risposta univoca né di facile interpretazione al perché della presenza di tali sculture: ciò che è sicuro è che non vi è nulla di osceno in esse e che, se l’effetto voluto era quello di portare alla riflessione sull’importanza del tema amore/sesso, i templi di Khajuraho ci riescono alla perfezione!

Le immagini erotiche comunque non sono presenti su tutti i templi bensì solo su quelli appartenenti al cosiddetto “gruppo occidentale”. I templi di Khajuraho si dividono infatti in tre gruppi, occidentale, orientale e sud che assolutamente valgono tutti la pena di essere visitati, ancor meglio se durante le prime ore del mattino quando la luce del sole ne illumina le pareti e le celle sacre e quando ancora non sono stati invasi dalle orde dei gruppi organizzati.

Lakshman Temple - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Lakshman Temple – Gruppo Occidentale – Khajuraho

Shiva lingam - Interno del Khandariya Mahadeo - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Shiva lingam – Interno del Khandariya Mahadeo – Gruppo Occidentale – Khajuraho

Interno del Lakshman Temple - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Interno del Lakshman Temple – Gruppo Occidentale – Khajuraho

Sforzatevi dunque di svegliarvi all’alba per cominciare a godervi le meraviglie di Khajuraho e, perchè no, partite pure dal più antico tra tutti i templi, lo Chausath Yogini, prova tangibile del fatto che la zona fosse una tra le aree di diffusione del culto tantrico.

Chausath Yogini Temple - Khajuraho Chausath Yogini Temple - Khajuraho

Godetevi poi la tranquillità dei gruppi sud e orientale, visitate il Chaturbhuj, il Duladeo, il Parsvanath e il Vamana Temple; concludete quindi con quelli del gruppo occidentale, qui dove l’arte si fa sensuale e perfetta, qui dove i templi raccontano una storia, quella di una grande dinastia ma soprattutto quella di tanti abilissimi scultori i cui nomi non è dato ricordare ma il cui spirito sopravvive ancora nella roccia.

Kandariya Mahadeo Temple - Gruppo Occidentale - Khajuraho

Kandariya Mahadeo Temple – Gruppo Occidentale – Khajuraho

Profumi e colori nei mercati dell’Asia

Profumi e colori nei mercati dell’Asia 1024 682 Sonia Sgarella

Che cosa c’è di più bello, autentico e rivelatore che perdersi tra le bancarelle dei mercati del mondo? Dai più grandi ai più colorati, dai più strani ai più profumati, i mercati sono molto di più che semplici centri di scambio: sono i punti d’incontro di genti e culture, dove riuscire a cogliere l’essenza di un paese sapendo di che cosa si nutre la sua popolazione, che cosa cerca e cosa produce.

Nei mercati come in nessun altro luogo, entrerete in contatto con le più varie tradizioni locali, culinarie e non, in un tripudio di abbondanza e folklore che vi sorprenderà, portandovi sempre alla ricerca di situazioni simili ovunque andiate! Spostiamoci dunque nei meravigliosi mercati dell’Asia…

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1.Shivaji Market, Pune, India

Arrivati a Pune, una delle città più moderne dell’India intera, nessuno si aspetterebbe mai di trovare un mercato tanto tradizionale dove i colori, come sempre, la fanno da padrone. Lo Shivaji Market, il cui nome ci ricorda quello dell’eroe storico più famoso del Maharasthtra, è il posto ideale dove perdersi tra mille foto e scoprire tutti gli ingredienti base della cucina indiana.

Shivaji Market 1 - Pune

Shivaji Market 2 - Pune

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2.Mercato di Bandarawela, Sri Lanka

In questa cittadina apparentemente anonima della Hill Country ma situata a soli 13 km da Ella, ogni domenica mattina si svolge un vivace e coloratissimo mercato, da non perdere!Mercato domenicale di BandarawelaMercato domenicale di BandarawelaMercato domenicale di Bandarawela

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3.Mercati del Lago Inle, Myanmar

Dal piccolo e vivace villaggio di Nyangshwe, situato sul canale principale che sfocia sulla sponda settentrionale del lago, affittando una barca a motore, è possibile raggiungere i pittoreschi mercati rurali che, a rotazione, riuniscono le genti delle principali tribù birmane che lì si recano nella speranza di vendere i prodotti delle loro terre, situate a volte anche ad una notte di cammino di distanza. Convincendovi del fatto che i mercati più famosi siano anche i più turistici, cambiate direzione e dirigetevi verso quelli meno pubblicizzati. L’escursione prevede una forzata “levataccia” verso le 5 del mattino, quando Nyangshwe ancora dorme, per riuscire a raggiungere i mercati quando i banchi sono ancora colmi di frutta e verdura. Ricco, coloratissimo e fuori dal circuito turistico è quello di Nampan, sulla sponda orientale del lago a circa un’ora di navigazione da Nyangshwe.

Mercato di NampanMercato di Nampan

Mercato di Nampan

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4.Chandni Chowk, Delhi, India

Se cercate la confusione estrema siete nel posto giusto e qui troverete anche l’introvabile! Zap Mangusta nel suo recente libro “Le infradito del Buddha” lo descrive nel modo più appropriato, dicendo: “infilarsi tra i suoi caruggi è una specie di esperienza mistica per tutti i sensi, in particolare per quello dell’orientamento!”.

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5.Mercati galleggianti, Vietnam

Ogni giorno sulle acque inquinate dei canali navigabili del delta del fiume Mekong si svolgono decine di mercati, tutti rigorosamente galleggianti, su barche o canoe. Da quello di Cai Rang a quello di Cai Be, non dovrete fare altro che rimanere a guardare, comodamente seduti sulla vostra imbarcazione. Il mattino presto, prima che cominci a fare caldo, è il momento migliore per cominciare la vostra escursione. Mercati simili si trovano anche in Thailandia, a Damnoen Saduak, nei pressi di Bangkok.

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6.Mercato domenicale di Chiang Mai, Thailandia

Il luogo dove trovare davvero di tutto, dagli articoli di artigianato al cibo tipico, ai caratteristici Foot Massage a cui non dovreste assolutamente rinunciare. Tirate fuori il portafoglio e preparatevi a contrattare!

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7.Mercato all’ingrosso di Dambulla, Sri Lanka

Anche se non avete intenzione di acquistare interi caschi di banane, questo grande mercato all’ingrosso offre un affascinante spaccato dell’ampia produzione ortofrutticola dello Sri Lanka.

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8.Devaraja Market di Mysore, India

Esempio perfetto di un mercato tradizionale indiano, carico di colori sgargianti, profumi inebrianti, chiasso e confusione. Percorretelo da cima a fondo senza tralasciare le vie adiacenti, assaporatene la bellezza, la vivacità e con questo lasciatevi trasportare indietro nella storia!

Leggi anche l’articolo Mysore e dintorni: luoghi e culture

Devaraja Market

Devaraja Market

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 9.Mercato del bestiame di Kashgar, Cina

Appuntamento imperdibile che vede riunisrsi gli allevatori Uiguri di questa provincia dello Xīnjiāng per contrattare diversi capi di bestiame, tra cui pecore, vacche e cammelli. Entro mezzogiorno venditori e acquirenti saranno tutti arrivati dunque fate in modo di essere presenti, facendo attenzione a dove mettete i piedi ma soprattutto al movimento di camion e carretti carichi di animali che difficilmente vi daranno la precedenza!

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10.Mercati dei fiori, India

A Calcutta, a Mumbai o in qualsiasi altra città dell’India, i mercati dei fiori sono sempre un meraviglioso tripudio di colori!

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Bodhgaya: a colloquio col Buddha nell’India moderna

Bodhgaya: a colloquio col Buddha nell’India moderna 1024 682 Sonia Sgarella

“Nessuno conferisce l’illuminazione; a nessuno essa appartiene. La piena realizzazione della propria natura è quello che i Buddha chiamano illuminazione.”

Sul come abbiano fatto a trasformare un luogo di pace e meditazione in un tipico delirio indiano, bisognerebbe chiederlo soltanto a loro, gli abitanti di Bodhgaya e a tutte le generazioni che li hanno preceduti.

Secondo la tradizione Bodhgaya sarebbe il luogo dove il principe Siddharta Gautama, dopo anni di invani tentativi, raggiunse finalmente l’illuminazione, il cosiddetto Nirvana, divenendo così il Buddha (letteralmente “il risvegliato”).

Probabilmente il grande maestro risorgerebbe oggi dalle ceneri se solo vedesse che cosa sono stati capaci di combinare i suoi beneamati devoti attorno a quello che costituisce la meta di pellegrinaggio più ambita per la comunità buddhista nel mondo – un po’ quello che per i musulmani rappresenta la Mecca o San Pietro per i cristiani cattolici.

Business, business e business, sacro o profano che sia ma pur sempre un commercio sfrenato legato alla fede che passa dai venditori ambulanti di fiori per le offerte, alle bancarelle di qualunque cianfrusaglia pseudo-tibetana, per arrivare fino alle più grandi congregazioni buddhiste che, se tutto il mondo è paese e le religioni un po’ si assomigliano, allora anche lì chissà che cosa c’è dietro…

Pensate che, per un momento, camminando tra le strade di Bodhgaya alla scoperta dei vari monasteri che ospitano le tante comunità di monaci, mi è sembrato di ritornare all’Expo: i templi di Bodhgaya come i padiglioni milanesi sono infatti ognuno costruito nello stile architettonico del paese committente che qui trova una sua rappresentanza. Tibet, Giappone, Thailandia, Bhutan, Cambogia, Nepal…vi sono davvero tutti!

Bodhgaya - Bhutanese Temple

Bhutanese Temple

Japanese Temple

Japanese Temple

Karma Kagyu Gompa

Karma Kagyu Gompa

Thai Temple

Thai Temple

A sconvolgere l’atmosfera di pace che uno si aspetterebbe inoltre è il traffico di Bodhgaya, forse uno tra i più isterici incontrati in India: clacson che bucano i timpani, macchine, autorikshaw, moto e biciclette ma soprattutto decine  e decine di pullman turistici che ogni giorno riversano centinaia di pellegrini all’interno del complesso templare conosciuto con il nome di Mahabodhi Temple, dove si trova il famoso albero della Bodhi sotto il quale il Siddharta raggiunse l’illuminazione.

Le leggende che ruotano attorno a questo albero sono diverse ma la più condivisa vorrebbe  che quello presente altro non sia che il nipote dell’albero originale, del quale un ramoscello venne portato in Sri Lanka dalla figlia di Ashoka – il grande imperatore Maurya che regnò in India nel corso del III secolo a.c. Vuole la tradizione che, da Anuradhapura, un secondo ramoscello venne riportato a Bodhgaya dove diede vita all’enorme pianta che ancora oggi sopravvive all’interno del recinto sacro, regalando la sua ombra a decine di monaci e meditanti che qua sotto provano a intraprendere la stessa strada del loro maestro.

Meno male che, nonostante la delirante situazione circostante e le apparenze, all’interno dei vari templi – incluso ovviamente il Mahabodhi – si respira ancora quell’aria di pace che dovrebbe di regola appartenere a questi luoghi. Entrati nelle varie sale di preghiera o varcato il cancello di questo importantissimo santuario, si viene infatti immediatamente trasportati in un’atmosfera surreale, piena di pace e spiritualità.

Interno del Bhutanese Temple

Interno del Bhutanese Temple

Una torre alta 55 metri visibile da tutto il circondario è quella che sovrasta la cella contenete l’immagine dorata del Buddha oggetto di venerazione e costituisce uno dei più antichi esempi di arte templare buddhista costruito interamente in mattoni, risalente alla tarda epoca Gupta (V-VI secolo d.c.).

Bodhgaya - Mahabodhi Temple

Centinaia di monaci e monache buddhisti vestiti delle più svariate tonalità di ocra, arancione, rosso o marrone – a seconda del paese di provenienza e della scuola di appartenenza – nonché pellegrini di ancor più nazionalità e credo ma anche visitatori occasionali, sono tutti immersi nell’atmosfera eterna che circonda questo luogo: chi assorto in meditazione o intento a recitare una serie infinita di mantra, chi impegnato a leggere le scritture sacre o a prostrarsi innumerevoli volte su degli speciali tappeti per la preghiera; chi ancora cammina veloce lungo qualunque perimetro possibile, sempre in senso orario, snocciolando il rosario o facendo girare le ruote della preghiera. Non importa in che modo si voglia esprimere la propria devozione: tutti hanno la mente rivolta verso gli insegnamenti di quel grande maestro, vissuto oltre 2500 anni fa e che proprio qui formulò la sua filosofia di vita, oggi seguita da milioni di fedeli.

Bodhgaya - Mahabodhi Temple Bodhgaya - Mahabodhi Temple

Cominciate a camminare seguendo il flusso e in men che non si dica vi ritroverete anche voi rapiti da questo luogo leggendario, nella cui aria riecheggiano in continuazione i versi cantilenatati dai monaci e ripetuti dai pellegrini. Pellegrini che, come vi dicevo appartengono anche a fedi diverse e tra tutte, in primis, quella induista. Secondo la tradizione, il Buddha infatti altro non sarebbe che uno dei dieci avatara del grande dio Vishnu e per questo venerato come l’ennesima divinità appartenente all’infinito phanteon.

Si potrebbe stare seduti per ore semplicemente ad osservare quello che vi succede intorno. Prendetevi dunque tutto il tempo che volete, liberate la mente e lasciatevi travolgere dall’energia di questo luogo incantato il quale vi mancherà non appena avrete varcato il cancello d’uscita. Ritornateci più volte, approfittatene finché siete in zona e soprattutto cercate di visitarlo in diversi momenti della giornata tra cui l’ora del tramonto quando i canti dei monaci e dei pellegrini si confonderanno con quelli di centinaia di uccelli. Alla sera poi il complesso templare si illumina di mille lucine colorate per cui uno spettacolo che non vorreste perdervi!

Bodhgaya - Mahabodhi Temple

Bodhgaya - Mahabodhi Temple

L’ingresso al tempio, aperto dalle 4 del mattino alle 9 di sera, è gratuito. Non è permesso portare con sé il cellulare per cui lasciatelo in camera o presso il deposito ufficiale. Le macchine fotografiche invece possono essere utilizzate solo dietro pagamento di un permesso dal valore di 100 rupie che vi verrà controllato in entrata.

Tutto insomma, anche nelle vicinanze di Bodhgaya ruota intorno alla vita del Buddha e tra i vari luoghi che lo ricordano uno in particolare vale la pena di essere visitato: Mahakala Cave, il luogo in cui per diversi anni il futuro Buddha praticò la mortificazione del corpo come tentativo per raggiungere il Nirvana. All’interno di una grotta buia, la statua di Siddharta lo raffigura quindi in pelle o ossa, un’immagine tipica che si riferisce a questo periodo della sua vita.

Mahakala Cave Mahakala Cave

Il nome Mahakala tuttavia suggerisce che la grotta sia anche dedicata ad un altro personaggio della fede induista, la grande dea Kali: all’interno della stessa grotta infatti la statua del Buddha e quella di Kali si contendono l’appartenenza e per questo motivo all’esterno, prima della scalinata, troverete un cartello che suggerisce ai devoti buddhisti di non offrire nulla all’interno della grotta (sottinteso ai bramini che siedono accanto a Kali) bensì di rivolgersi ai monaci custodi del piccolo monastero che sorge nello stesso luogo.

Per raggiungere la grotta, che si trova a una dozzina di chilometri da Bodhgaya, dovrete prendere un tuk tuk. Il costo più onesto per andata, ritorno e attesa è di 500 rupie.

Insomma, Bodhgaya certamente vale la pena di essere visitata e diciamocelo… nonostante l’evoluzione dei tempi l’abbia portata ad essere un po’ troppo caotica, chi fosse intenzionato a raggiungere l’illuminazione, sarebbe ancor più bravo se riuscisse a farlo in mezzo al traffico!

Gujarat e Unesco: le rovine archeologiche di Champaner

Gujarat e Unesco: le rovine archeologiche di Champaner 1024 682 Sonia Sgarella

Una collina vulcanica di circa 800 metri che si innalza solitaria nel bel mezzo di una campagna polverosa e sconfinata; un’antica cittadella islamica costellata di raffinate moschee e monumenti funerari,per secoli dimenticata: sono questi gli splendidi siti conosciuti localmente con il nome di Pavagadh e Champaner, entrambi meritatamente e a ragion dovuta inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dall’Unesco.

Vi riporto di nuovo nello stato del Gujarat, a circa un’ora e mezza dall’attivo centro abitato di Baroda (Vadodara) che pur non presentando nessuna attrattiva particolarmente interessante, costituirà quasi necessariamente la vostra base di partenza, se non altro per la vasta offerta di sistemazioni.

Per la visita di Pavagadh e Champaner considerate di impiegare un’intera giornata per cui recatevi in mattinata nella sorprendentemente moderna stazione degli autobus – dove già il giorno prima avrete chiesto conferma degli orari – e salite sul primo autobus in partenza diretto nella zona del parco archeologico. Il tragitto – non chiedetemene il motivo – avrà un costo di 35 rupie per l’andata e 50 per il ritorno.

Una volta arrivati a destinazione, uscendo dal bus stand locale, svoltate a destra e continuate lungo la strada principale in direzione della Jami Masjid, la “Grande Moschea”. La troverete dritta davanti a voi, all’altezza di una grande curva. Guardatela ma non entrateci ancora. Prendete piuttosto prima il sentiero di campagna che si dirama immediatamente alla sua sinistra e mentre godrete di una spettacolare prospettiva della collina di Pavagadh, fate tappa alla Kevda Masjid.

Immersa in un pacifico e silenzioso ambiente rurale e praticamente dimenticata dal turismo locale di pellegrini in visita alla collina, poco interessati ai vicini edifici storici, questa prima magnifica moschea con annesso cenotafio, è il luogo perfetto da dove cominciare la vostra esplorazione e, nella solitudine più assoluta, iniziare ad immergervi nella storia di questi luoghi incantati.

Champaner

Champaner, fondata nell’VIII secolo dal più prominente dei sovrani della dinastia Chavda – lo stesso che fondò la città di Patan, passata poi nelle mani della dinastia Solanki – e successivamente governata dal gruppo Rajput dei Chauhan, raggiunse il suo massimo splendore solo quando, nel 1484, Mahmud Begda, dopo 20 lunghissimi mesi d’assedio, ne fece la capitale del suo regno, il nuovo Sultanato del Gujarat.

Leggi anche: Viaggio in Gujarat: lo splendore dell’arte Solanki nei dintorni di Mehsana

Purtroppo Muhammadabad – così venne rinominata sotto il suo governo – non ebbe lunga vita: troppo presto, dopo solo 23 anni di regno, venne infatti rimpiazzata nel suo ruolo da Ahmedabad. Il destino di Champaner era quindi ormai già segnato quando Humayun, l’imperatore Mughal, la saccheggiò di tutto quello che era rimasto lasciando che questa antica meraviglia cadesse in rovina per sempre.

La Kevda Masjid, che venne dunque costruita durante il regno di Mahmud Begda (1458-1551 d.c.) , rappresenta ancora oggi una perfetta sintesi di architettura indo-islamica, ricca di squisiti disegni geometrici e floreali che vennero presi a modello in altri esempi  architettonici dello stesso genere. Al tempo della sua costruzione la moschea era dotata di tre cupole a sovrastare la grande sala della preghiera ma purtroppo quella centrale ha subito un crollo ed è oggi mancante.

Champaner - Kevda Masjid

Champaner - Kevda Masjid

Champaner - Kevda Masjid

Ritornate ora sul sentiero di campagna da cui siete arrivati e girando intorno alla Kevda Masjid, in altri dieci minuti di cammino, raggiungerete la Nagina Masjid dove, questa volta a farla da padrone, più che la moschea, è il vicino cenotafio le cui facciate, colonne e nicchie sono di nuovo meravigliosamente decorate con motivi floreali e geometrici.

Champaner - Nagina Masjid Champaner - Nagina Masjid Champaner - Nagina Masjid

Se vi siete quindi goduti abbastanza la pace di questi primi due luoghi, siete ora pronti a fare ritorno verso la Jami Masjid, la moschea più imponente dell’area archeologica. Situata al di fuori di quello che rimane delle antiche mura di fortificazione della cittadella, la “Grande Moschea”, si classifica a livello architettonico come una delle più raffinate di tutto lo stato del Gujarat. Personalmente non mi sono trovata d’accordo con questo giudizio. Sarà per l’atmosfera silenziosa e d’incanto che le circondava ma ho trovato, nonostante le dimensioni meno imponenti, molto più suggestive la Kevda e la Nagina Masjid per le quali  oltretutto non viene richiesto neanche il biglietto d’accesso.

Essendo l’area di Champaner protetta dall’Unesco, il costo dell’entrata che viene venduto all’ingresso della Jami Masjid ammonta infatti a ben 250 rupie. Il biglietto cumulativo sarebbe teoricamente valido per tutti i monumenti del parco archeologico ma viene controllato solo in questa occasione e presso la Shaher ki Masjid, anch’essa visibilissima dall’esterno. Detto sinceramente, dovessi tornare indietro, mi limiterei a guardare la Jami Masjid da fuori, senza entrare, considerato anche il fatto che, pur trattandosi di monumento archeologico, l’accesso alla sala delle preghiere non è consentito alle donne!

Champaner - Jami Masjid

Champaner - Jami Masjid

Champaner - Jami Masjid

Terminate quindi il percorso esplorando le rovine della cittadella e le stradine del villaggio che si è sviluppato al suo interno, il tutto fino a raggiungere la Shaher ki Masjid, la moschea che venne architettata per l’utilizzo della famiglia reale e dei nobili del Sultanato del Gujarat.

Champaner - Shahar ki Masjid

Per quanto riguarda il tempio sulla collina di Pavagadh, io purtroppo non ho avuto tempo di visitarlo per via di un autobus notturno già prenotato e in partenza il giorno stesso. Dalle rovine di Champaner comunque sono in partenza delle shared jeep  che vi porteranno fino all’accesso dell’ovovia la quale vi permetterà di raggiungere facilmente – evitandovi due ore di cammino – il tempio posto sulla sua sommità e dedicato a Kalikamata, ovvero alla Dea Kali. Risalente al X-XI secolo, trattasi di uno dei più antichi della zona, meta di pellegrinaggio da ancora prima che venisse fondata la città di Champaner. In una giornata limpida la vista dall’alto dev’essere incredibile!

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