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I cinque “carri” leggendari di Mamallapuram

I cinque “carri” leggendari di Mamallapuram 2000 1333 Sonia Sgarella

“Madre, ho portato a casa un dono” – così si rivolse a Kunti un Arjuna vittorioso di ritorno dal grande swayamvara (pratica di selezione del futuro marito tra una rosa di contendenti) indetto dal re Draupada per trovare un degno marito a sua figlia. In un paese dove il rispetto alla madre supera anche il volere divino e in un tempo in cui la fede alla parola era un valore fondamentale, il terzo dei Pandava, eccezionale arciere, non poté fare altro che rispettare il comandamento inavvertitamente espresso da Kunti la quale, senza vedere di quale dono si trattasse rispose: “Qualsiasi cosa sia, il vostro dovere è quello di dividerlo tra di voi.” Fu così che Draupadi divenne la moglie di tutti e cinque i fratelli.

Figli di Pandu, legittimo erede al trono di Bharata, i cinque fratelli nacquero per mezzo di un potente mantra ricevuto da Kunti in giovane età, grazie al quale avrebbe potuto generare dei figli invocando a piacimento qualsiasi divinità. Nacquero così:

  • Yudishtira, figlio di Dharma (il dio della giustizia), di grande saggezza e dal forte senso di rettitudine;
  • Bhima, figlio di Vayu (il dio del vento), dalla forza sovrumana e invincibile nella lotta;
  • Arjuna, figlio di Indra (dio vedico a capo dei Deva, grande guerriero), impareggiabile nell’uso delle armi;

Kunti concesse poi l’uso del mantra alla seconda sposa di Pandu, Madri, e da lei nacquero:

  • Nakula e Sahadeva, figli gemelli degli Ashvin (i medici degli dei), di bell’aspetto e grande erudizione.

Ai cinque Pandava e alla moglie Draupadi è oggi dedicato un altro dei grandi capolavori di Mamallapuram: conosciuto col nome di “Five Rathas”, si tratta di un gruppo di cinque templi popolarmente chiamati appunto ratha, “carri”, come i veicoli processionali delle divinità. Ognuno di questi prende il nome di uno (o due nel caso dei gemelli) dei sei personaggi leggendari. Ricavati anch’essi come l'”Arjuna’s penance” (di cui l’articolo Mamallapuram: galleria d’arte a cielo aperto) da colline granitiche, quattro dei quali da un unico masso e quindi disposti sullo stesso asse, si tratta per la verità di cosiddetti vimana, il termine usato nell’India del sud per designare la cella del tempio contenente l’immagine sacra (murti) con la sua elevazione. Non vi è però nessun riferimento storico riguardo al rapporto di questi con i cinque fratelli Pandava. Si tratta invece di templi dedicati al culto delle divinità principali dell’induismo i quali tuttavia non vennero mai consacrati bensì, come accadde spesso a Mamallapuram, lasciati incompiuti.

IMG_5022(Da sinistra: tempio di Dharmaraja, tempio di Bhima, tempio di Arjuna e tempio di Draupadi)

Unica nel suo genere è la copertura del tempio chiamato di Draupadi, di fatto dedicato a Durga, assomigliante al tetto di paglia di una capanna di villaggio. Purtroppo, essendo ancora in una sorta di fase sperimentale, alcune forme, tra cui questa, non verranno più riproposte. Sulla parete di fondo della cella è raffigurata la dea: qui, diversamente che nel nord, i muri interni del sacrario non sono necessariamente disadorni.

IMG_5015(Da sinistra: tempio di Arjuna e tempio di Draupadi)

Il tempio di Bhima, di pianta rettangolare, ospita un’immagine non terminata di Vishnu disteso sul Serpente cosmico. E’ coronato da un tetto a botte. Una copertura simile la possiede anche il tempietto, non allineato agli altri e privo di scultura, noto con il nome dei gemelli Nakula e Sahadeva; questo tuttavia termina con un’abside in ricordo degli antichi santuari buddhisti.

Ma a fare scuola nell’architettura del sud saranno i templi detti di Arjuna, e soprattutto, di Dharmaraja (Yudishtira). Di pianta quadrata, presentano nella loro sovrastruttura riproduzioni in scala ridotta di edifici con tetti a botte (shala) e cieche finestrelle ad arco (chandrashala) le quali si allineano su diversi piani formando una piramide a gradoni che culmina con una pietra scolpita (stupi). I templi sono affiancati da grandi sculture di animali quali un leone e elefante che non necessariamente rappresentano il veicolo divino della divinità a cui è dedicato il tempio.

IMG_5020(tempio di Nakula e Sahadeva)

Tirumala-Tirupathi: dove la sacralità si respira nell’aria

Tirumala-Tirupathi: dove la sacralità si respira nell’aria 150 150 Sonia Sgarella

Forse non basterà tornarci cento volte per capire l’India ma questo non deve scoraggiarvi. Fate il possibile per acquisirne anche solo una piccola parte, concesso il fatto che spesso è proprio ciò che non comprendiamo che ci affascina e ci stimola. Non demordete, perché vi renderete presto conto di quanto l’India sia necessaria per far rivivere in noi quella spiritualità di cui ci siamo volutamente privati, che con feroce convinzione abbiamo espulso dalle nostre vite, troppo occidentali, egocentriche, troppo razionali e indipendenti per poter ammettere l’esistenza di un’entità superiore a cui potersi aggrappare, anche solo sporadicamente.  In India basta respirare per percepirne la presenza: è qualcosa che pervade l’aria, che si espande. Ci tocca e ci percuote. E’ come un’onda, un terremoto, un’antica vibrazione che ci attraversa, capace di legare a sé qualunque cosa incontri sul suo percorso. Ogni volta che tornerete in India ci sarà sempre un nuovo spettacolo pronto a sorprendervi, anche quando presuntuosamente crederete di aver già visto tutto. Munitevi di innocenza e rimarrete incantati dalla semplice vista del mare, di un fiume, dell’acqua, fonte di vita, incantati dal paesaggio mutevole, dall’orizzonte che si allontana a perdita d’occhio man mano che risalirete il versante di un’altura per raggiungerne la vetta, perché è lì, si sa, che dimorano gli dei. Vi stupirà la gente, l’incessante movimento della folla, incorruttibile devota che, nonostante i cambiamenti sociali e la modernizzazione, rimane fedele perpetuatrice di una tradizione millenaria che non solo sopravvive ma regna sovrana in ogni angolo dell’India. Ma vi sono alcuni luoghi letteralmente intrisi di sacralità che, più di altri, non potrebbero lasciare indifferente neanche il  più scettico tra i profani: luoghi dove ogni  giorno migliaia di pellegrini si accalcano, noncuranti del tempo che scorre, al solo scopo di guardare la divinità dritta negli occhi e da questa essere visti perché li possa riconoscere come suoi devoti. La visione durerà solo pochi istanti ma avverrà nella più profonda e sincera convinzione che proprio lì, in quel momento, il dio abbia deciso per sua grazia di mostrarsi in terra. Il tempio di Venkateshwara a Tirumala, nell’Andhra Pradesh è uno di quei luoghi: qui la vibrazione si fa più intensa e le code per accedere al tempio possono durare anche mezza giornata. Visnu, sotto forma di “Signore che libera dai peccati” appare magnificamente ornato di oro e ghirlande che risplendono e lo illuminano nella luce soffusa della cella donandogli un’aurea di mistica trascendenza. L’inno a Govinda si fa sempre più incalzante quando, dopo ore di attesa nel labirinto di gabbie metalliche, la folla di fedeli giunge finalmente al cospetto divino portando con sé ognuno il proprio desiderio da esprimere. Giovani, anziani e bambini appena nati, uomini e donne, rinunciano al proprio ego di fronte all’immensità del divino. Sono forti di un amore incondizionato e molti di loro lo dimostrano omaggiando la divinità con i propri capelli attraverso la totale tonsura del capo operata delle decine di barbieri e barbiere che lavorano nelle strutture del tempio. Lo fanno perché credono, lo fanno perché è giusto, lo fanno soprattutto perché devono  in quanto hindu. Non importa essere poco attraenti, i capelli sono solo un accessorio, un effimero attributo illusorio; sono solo un’altra vanità materiale di poco, pochissimo conto di fronte alla superiorità divina.

Tirumala è facilmente raggiungibile da Tirupathi, a fondo valle, dove si trovano la maggior parte delle sistemazioni alberghiere. Raggiunta la stazione degli autobus dirigetevi verso il settore di partenza delle navette che effettuano il servizio di collegamento tra le due località. Un biglietto di andata e ritorno vi costerà 82 rupie (1 euro). Il tragitto, della durata di non meno di 40 minuti (obbligo imposto dalle autorità preposte al controllo del servizio per motivi di sicurezza) prevede la risalita dell’altura di Tirumala e vi darà modo di godere di viste spettacolari dai finestrini di sinistra.  Una volta raggiunta l’area del tempio cercate l’accesso alla corsia dello Special Darshan che al costo di 300 rupie vi permetterà di risparmiare qualche ora di coda. Ai turisti verrebbe anche data la possibilità, previa presentazione del passaporto, di accedere alla corsia VIP e di accorciare ulteriormente il percorso di ingresso ma se siete interessati a vivere l’esperienza del pellegrino hindu evitate questa opzione. In fondo cosa saranno mai 4 ore di attesa! Dalle grate delle gabbie metalliche vi verranno offerti cibo, acqua e latte bollito, opuscoli e quotidiani anche in inglese! I bagni sono disponibili lungo il percorso.

P.s Preparatevi a essere spinti ma soprattutto non fatevi scrupoli a spingere!

Praga d’autore: David Cerny, l’enfant terrible della Repubblica Ceca

Praga d’autore: David Cerny, l’enfant terrible della Repubblica Ceca 675 350 Sonia Sgarella

Era il 1784 quando, per un progetto di centralizzazione dell’impero asburgico, le quattro cittadelle fortificate conosciute come Hradčany, Staré Město, Nové Město e Malá Strana, abbattute le fortificazioni, vennero unite a formare quella che è oggi l’estesissima capitale della Repubblica Ceca: Praga.

Il Ponte Carlo, la Cattedrale di San Vito, la Torre dell’Orologio Astronomico e il sistema di chiuse che rendono la Moldava parzialmente percorribile nel suo tratto centrale, sono solo alcune delle creazioni architettoniche che l’hanno elevata a centro culturale e turistico di fama mondiale, patrimonio dell’UNESCO dal 1992.

Una città a tratti oscura, non solo per il colore nero fuliggine che si è forse irrimediabilmente impossessato dei suoi monumenti – alcuni dei quali sembrerebbero potersi sgretolare all’improvviso davanti agli occhi di chi li sta ammirando – ma anche a causa di quell’alone di mistero che ne pervade la storia, intrisa di miti e leggende che ne raccontano spesso un passato crudele.

Una città enigmatica, a tratti malinconica ma soprattutto magica, protagonista insieme a Torino e a Lione del celebre triangolo europeo di magia bianca. Eppure in questo luogo, che arriva ad esprimere tutta la sua essenza nella bruma del mattino o sotto la neve d’inverno, le menti creative dei suoi abitanti si sono ingegnate per dare vita ad opere d’arte di stampo completamente opposto che spiccano a volte per le cromie accese e i motivi floreali e a volte, per ironia, sarcasmo ed eccentricità.

Esiste quindi una Praga meno mesta, più solare, propensa al cambiamento, a volte addirittura sovversiva, che ci regala capolavori di particolare genio firmati Alfons Mucha e David Cerny. Relego ad un altro articolo la presentazione delle opere di Mucha, celebre pioniere dell’Art Nouveau, e qui vi presento l’itinerario che vi porterà alla scoperta delle sculture di David Cerny, nascoste in diversi angoli della città. 

Chi è David Cerny?

Classe 1967, Mr. Cerny è un controverso e imprevedibile artista ceco, giovane genio irriverente, scultore di opere sorprendenti e scandalose, il cui fine principale è quello di turbare il pubblico per portarlo alla riflessione senza però mancare di affascinarlo.

Aperto polemico del panorama politico ceco degli ultimi decenni e sarcastico osservatore del mondo in generale, raggiunse la notorietà nel 1991 per aver dipinto di rosa un carro armato sovietico, memoria della liberazione di Praga dall’esercito nazista per mano dell’Armata Rossa e, al tempo, ancora monumento nazionale. Un gesto rivolto decisamente contro il regime sovietico che gli costò l’arresto immediato. Passeggiando oggi per le strade della capitale non si può fare a meno di soffermarsi ad osservare le sue creazioni che colpiscono per stranezza e singolarità.

Uno dei suoi primi lavori, creato nel 1990 è “Quo Vadis“, la rappresentazione di una Trabant (auto simbolo della Germania dell’Est) a quattro zampe. Permanentemente collocata nel giardino dell’ambasciata tedesca (Vlasska 19/ 118) dal 2001, l’opera in vetroresina color bronzo vuole ricordare l’esodo di massa che portò migliaia di tedeschi dell’Est a cercare asilo politico nei giardini dell’ambasciata tedesca a Praga e li accamparsi prima che gli venisse concesso il permesso di viaggiare verso la Germania dell’Ovest. Era il 1989, poco prima della caduta del muro di Berlino quando, al momento della fuga, centinaia di Trabant dei circa 4000 rifugiati, dovettero essere abbandonate dai proprietari, dal momento che il trasferimento venne organizzato in treno.

Con una breve camminata si raggiunge l’ingresso del Museo di Kafka, in Cihelná 2b, dove la prima cosa che si nota è la rappresentazione di due uomini che urinano in una pozza d’acqua a forma di Repubblica Ceca (Pissing Men). Posti uno di fronte all’altro, muniti di bacino rotante e di pene mobile, le due icone sarebbero in grado, su richiesta via sms, di pisciare per voi sulla loro nazione il messaggio inviatogli!

Attraversato il Ponte Carlo, si prosegue per la via Husova dove, a vari metri d’altezza, vicino alla Cappella di Betlemme (Betlémské náměstí), si trova “l’appeso” (Viselec). Sospesa tra due palazzi, l’opera in laminato rappresenta Freud appeso ad una trave. Cerny non spiega il significato di quest’opera (a dir la verità non spiega mai il significato delle sue creazioni preferendo che l’interpretazione arrivi direttamente dall’osservatore). Le versioni sono quindi molteplici: una è quella della vita nel periodo del regime comunista, un’altra vede l’uomo nell’eterna indecisione fra il resistere o lasciarsi andare, un’altra ancora dice che Cerny vorrebbe rappresentare il ruolo dell’intellettuale nel nuovo millennio. Forse tutte queste interpretazioni hanno trovato posto nella mente dello scultore  prima che cominciasse a modellare l’opera. Qualunque sia il suo significato, fatto sta che Freud sembra trovarsi totalmente a suo agio in quella posizione (la mano sinistra  in tasca).

Da qua dirigetevi verso Václavské náměstí (Piazza Venceslao) da dove, prendendo la Vodičkova al 704/36 è possibile entrare all’interno del Palác Lucerna dove ancora sopravvive il kavárna Lucerna, antico café di Praga dove si riunivano scrittori, intellettuali ed artisti. Al suo interno sopravvive l’atmosfera della Praga d’altri tempi ma, nonostante questo, i prezzi sono più che accessibili. Appesa al soffitto della galleria troverete la statua  raffigurante San Venceslao seduto sulla pancia del suo cavallo ormai morto, parodia di quella originale posta al centro della omonima piazza. La creazione è nota come Kun (cavallo in ceco). Il fatto che il nome dell’ex Presidente Klaus sia proprio Václav (Venceslao in ceco) potrebbe non essere un caso. L’opera rappresenterebbe quindi l’ennesimo attacco più o meno mascherato all’uomo politico che allora (l’opera è del 1999) ricopriva la carica di primo ministro.

Ritornando sulla Národní dove ci sono alcuni dei kavárna più famosi tra cui il Café Louvre e il Kavárna Slavia affacciato sulla Moldava, passato il Teatro Nazionale e attraversato il Ponte delle Legioni (Most legií), svoltate a destra per imboccare la  U Sovových mlýnů dove si trova il Museo Kampa. Vicino all’ingresso sono collocate tre statue del genere di quelle che dal 2001 si arrampicano gattonando sulla torre della televisione Žižkov. Alte quasi 2 metri le statue raffigurano degli inquietanti bambini alieni (Miminka) le cui facce sono angosciosamente implose. Per raggiungere la Žižkov TV Tower potete prendere la Metro verde e scendere alla fermata Jiřího z Poděbrad.

Se siete interessati a proseguire l’itinerario da qui potete dirigervi alla Futura Gallery sulla Holečkova 789/49, dove troverete installate due sculture identiche raffiguranti la metà inferiore del corpo umano piegate in avanti. Con l’aiuto di una scala è possibile arrivare ad infilare la testa nel sedere di una di queste due creazioni, note con il nome di Brown Nosers (tradotto in “lecca-culo”). Al suo interno vi è installato uno schermo che riproduce un video in loop in cui Václav Klaus (interpretato da un attore) e il performer Milan Knizak si imboccano vicendevolmente sulle note di “We are the champions” dei Queen. Considerate che quando l’opera venne presentata nel 2003, Václav Klaus era appena stato eletto Presidente della Repubblica Ceca! La galleria è aperta dalle 11.00 alle 18.00 dal mercoledì alla domenica. L’entrata è gratuita.

 e allora…let’s go Cerny!

Gange: il fiume della vita

Gange: il fiume della vita 150 150 Sonia Sgarella

Il Gange nasce dalla catena montuosa più alta del mondo, l’Himalaya, dove molte vette superano i 6000 metri di altezza e sono perennemente coperte di neve e di ghiaccio. Gli oltre 15000 ghiacciai fanno di questi monti il serbatoio d’acqua dolce più vasto del mondo dopo i Poli. Il ghiacciaio Gangotri è uno dei più grandi che si estende per oltre 30 kilometri riempiendo di ghiaccio solido un’intera valle. Il fronte del ghiacciaio è chiamato Gaumukh, “la bocca della vacca”, perchè l’acqua che scorre sotto l’ampia lingua glaciale, è di un bianco lattiginoso. Per gli induisti questa è la sorgente del Gange, luogo dove solo i pellegrini più coraggiosi e robusti vengono a pregare Dio. Si dice che chi beva l’acqua del Gange a Gaumukh possa vivere cent’anni. Ma il Gange in realtà sgorga oltre il ghiacciaio a quasi 4500 metri di quota, dove solo pochi animali riescono a sopravvivere. Tra questi il Bharal, preda prediletta del Leopardo delle Nevi.

Secondo la mitologia induista in origine Ganga, la Dea del fiume, scorreva in cielo. Il pio re Bhagiratha aveva bisogno dell’acqua per purificare le ceneri dei suoi antenati che erano stati arsi dalla furia del saggio Kapila. Brahma acconsentì che la Dea Ganga scendesse sulla terra ma avvertì anche che la sua forza torrenziale avrebbe potuto spazzare via il mondo. Bhagiratha implorò allora l’aiuto di Shiva, il quale pose i suoi capelli arruffati lungo il percorso del fiume celeste. La massa di riccioli rallentò la forza distruttiva di Ganga e suddivise il flusso immenso in un migliaio di corsi d’acqua più piccoli. Il giovane Gange che scorre dal ghiacciaio Gangotri viene chiamato Bhagirathi in onore del re che portò la Dea del fiume sulla terra.

Cinquanta kilometri più a valle il turbolento Bhagirathi incontra il calmo e fangoso Alaknanda. Prima di fondersi i due corsi d’acqua scorrono l’uno accanto all’altro per 200 metri e solo allora il fiume prende il nome di Gange. Le acque impietose si calmano quando il fiume raggiunge le pianure gangetiche liberando i sedimenti trasportati dai ghiacciai. Il Gange deposita ogni anno 1,6 milioni di tonnellate di sedimenti, il quadruplo del Rio delle Amazzoni dando così vita a una delle terre più fertili del mondo. Il bacino del fiume si estende per un milione di kilometri quadrati nell’India nord-orientale, dove la maggior parte delle pianure alluvionali è stata destinata all’agricoltura. Ma fra i tributari più estremi del fiume , in una regione nota come Terai, sono rimasti dei lembi di praterie selvagge. Qui dimora uno degli animali più grandi del mondo: il Rinoceronte Indiano, i cui maschi posso arrivare a pesare anche 3 tonnellate. Nel bacino del fiume vivono quasi 500 milioni di persone, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Qui l’acqua del Gange, per natura fangosa, è resa ancora più melmosa dagli scarichi dell’agricoltura e dell’industria, eppure nelle sue acque ci vivono, o meglio, sopravvivono diversi animali. Uno di essi si lascia vedere così di rado da essere diventato quasi mitico: il Delfino di fiume del Gange, i cui occhi hanno perso quasi totalmente la vista a causa della scarsa visibilità in acqua. Ma lo schivo delfino non è l’unica strana creatura del fiume; insieme a lui vive ancora uno dei coccodrilli più grandi del mondo: Il Gaviale del Gange ,i cui maschi possono raggiungere i 6 metri di lunghezza senza però rappresentare una minaccia per l’uomo. Piuttosto, è l’uomo stesso la minaccia di questo animale preistorico che oggi conta solo circa 200 esemplari che con fatica sopravvivono alle pressioni della razza umana sul suo habitat. Ma, nonostante queste contraddizioni, la venerazione, la protezione e l’alimentazione degli animali sono la chiave della fede induista. Dar da mangiare ai gabbiani, per esempio, è un rito che alcune persone ripetono quotidianamente in quanto considerato un dovere da induista che le aiuterà ad ottenere un’esistenza migliore nella prossima vita. La reincarnazione è il credo fondamentale dell’induismo e non c’è posto in cui questo sia più evidente di Varanasi. Varanasi sorge sulle rive del Gange ed è considerata il luogo più sacro dell’India. E’ una delle città più antiche del mondo, dove la gente si reca per immergersi nel fiume da più di 3000 anni perchè si crede che l’acqua, qui in particolare, lavi i peccati e purifichi l’anima. Ogni induista sogna di recarsi sul Gange ma per molti di coloro che giungono a Varanasi si tratta dell’ultimo viaggio. Varanasi è infatti la città della morte. Secondo l’induismo ogni anima è imprigionata in un perpetuo ciclo di vita, morte e rinascita, noto come Samsara. La morte è solo un anello della catena. L’aroma del legno di sandalo, dell’incenso e del ghee, il burro chiarificato, qui riempe l’aria. Le pire funebri ardono continuamente. Varanasi è considerata la porta che unisce cielo e terra; si crede che morire ed essere cremati qui liberi l’anima dalla sofferenza delle vite ripetute e le consenta di raggiungere immediatamente il Moksha, la liberazione. In media hanno luogo ogni giorno 250 cremazioni e le ceneri di migliaia di morti vengono gettate ogni anno nel Gange. I pellegrini si lavano mentre pregano e inquinano mentre si purificano. Il Gange è infatti uno dei fiumi più inquinati del mondo eppure il potere della sua acqua di alimentare la vita è noto da centinaia di anni. Oggi, malgrado l’immenso numero di persone che si radunano a fare il bagno proprio dove le acque di scolo si riversano nel fiume, non sono state registrate epidemie di malattie gravi come il colera o il tifo. Gli induisti insistono sul fatto che il Gange abbia il potere di purificare e forse questa credenza ha qualche fondamento. Il Gange fornisce migliaia di miliardi di litri d’acqua all’agricoltura e all’industria e porta via i rifiuti di milioni di persone ma nonostante questo gli induisti ne bevono ogni giorno l’acqua e sostengono che, ben lungi dal farli ammalare, garantisca loro la salute fisica e mentale. I ricercatori hanno studiato questo paradosso e sembrerebbe che il Gange contenga un disinfettante naturale in grado di uccidere i germi patogeni che causano le malattie. E’ stata identificata la presenza  di batteriofagi, organismi microscopici che si nutrono di batteri. Quando trovano cibo, i batteriofagi si moltiplicano ad una velocità incredibile: in meno di mezz’ora, cento batteriofagi possono diventare 100.000. Più gente entra in acqua quindi, più cibo è disponibile per i batteriofagi del Gange che in un’invisibile frenesia alimentare eliminano i batteri prima che possano diffondere le malattie. Inoltre le analisi dimostrano che il Gange contenga una quantità insolitamente alta di ossigeno dissolto che aiuta a decomporre i rifiuti umani e animali riversati nel fiume. Il Gange lo fa 25 volte più velocemente di qualsiasi altro fiume e potrebbe essere per questo motivo che gli animali riescono a sopravvivere. Qui i rifiuti organici vengono decomposti in sostanze nutrienti che sono utili e non dannose all’ambiente.

Proseguendo lungo il suo corso, al confine tra India e Bangladesh, il Gange forma quindi il delta più grande della terra. Creato dalla confluenza del Gange, del Brahmaputra e del Meghna, questo super-delta è un labirinto di canali e insenature al cui interno si trovano le paludi e le foreste di mangrovie più estese del mondo: le Sundarbans. Qui, mentre i fiumi riversano nel Golfo del Bengala fanghi e sedimenti, le maree dell’oceano sommergono ogni giorno le foreste con l’acqua salata dando origine a uno degli habitat naturali più ostili del pianeta. Di nuovo, nonostante le difficili condizioni ambientali, diverse speci di animali riescono a sopravvivere in questi luoghi e, tra questi, la famosa Tigre del Bengala. Le Sundarbans sono uno degli ambienti più selvaggi del pianeta, eppure, l’Isola di Sagar, a pochi kilometri di distanza diventa la sede di uno dei raduni di persone più grandi del mondo: nel punto in cui il Gange, alla fine del suo corso, raggiunge il mare e si riversa nel Golfo del Bengala, in occasione del Festival di Makar Sankranti, a metà gennaio, i pellegrini qui si radunano per ringraziare il Gange di tutto quello che regala all’uomo. E’ un grande addio a un fiume che ha avuto un ruolo fondamentale nella vita delle persone e della natura dell’India.

(Fonte: Documentario “Gange-il fiume della vita”)

Lago Inle, un mondo sospeso sull’acqua

Lago Inle, un mondo sospeso sull’acqua 960 640 Sonia Sgarella

Esiste un mondo che vive sospeso sull’acqua e che di questa ne è complice, buon amico e amante…

Palafitte sul Lago Inle

Ricordo chiaramente quel brivido di emozione quando per la prima volta ho attraversato il Lago Inle, in Myanmar, un’immensa distesa di acqua placida dello stesso colore del cielo, specchio del carattere pacifico ed equilibrato di quella popolazione che ci vive a stretto, strettissimo contatto. Un animo talmente equilibrato da riflettersi nei movimenti dei loro corpi e permettergli di condurre quelle lunghe canoe stando in piedi su una gamba  e remando con l’altra. E’ questa tecnica singolare infatti che distingue  e caratterizza gli abitanti, ma soprattutto i pescatori della regione, le cui sagome si spostano leggiadre sull’acqua simili a quelle di eleganti fenicotteri.

Lago Inle

La sensazione di grandezza che si vive non corrisponde però alle effettive dimensioni del lago che misura soltanto 11 km di larghezza per 22 di lunghezza. Questo fattore può permettere al viaggiatore di raggiungere diverse località sulle sue sponde tenendo sempre come base il piccolo e vivace villaggio di Nyangshwe (situato sul canale principale che sfocia sulla sponda settentrionale del lago).

Affittando le barche a motore, simili alle long-tail thailandesi, e avendo a disposizione mezza giornata, è possibile raggiungere i pittoreschi mercati rurali che, a rotazione, riuniscono le genti delle principali tribù birmane che lì si recano nella speranza di vendere i prodotti delle loro terre, situate a volte anche ad una notte di cammino di distanza.

Lago Inle

Convincendovi del fatto che i mercati più famosi siano anche i più turistici, cambiate direzione e dirigetevi verso quelli meno pubblicizzati. L’escursione prevede una forzata “levataccia” verso le 5 del mattino, quando Nyangshwe ancora dorme, per riuscire a raggiungere i mercati quando i banchi sono ancora colmi di frutta e verdura. Ricco, coloratissimo e fuori dal circuito turistico è quello di Nampan, sulla sponda orientale del lago a circa un’ora di navigazione da Nyangshwe.

Non dimenticatevi ciò che di più caldo abbiate in valigia perché le coperte fornitevi dai barcaioli non basteranno a proteggervi dal freddo umido del mattino che può tranquillamente raggiungere i 5°C!

Il consiglio è quello, se avete  disposizione un’intera giornata, di spingervi il più a sud possibile per raggiungere il Lago Sankar, collegato al Lago Inle da un lungo canale che si snoda sinuoso tra straordinari villaggi costruiti su palafitte e orti galleggianti di ogni sorta. Un’esperienza unica e indimenticabile alla scoperta di quel mondo fiabesco  che vive sospeso sull’acqua.

Lago Inle

Lago Inle Lago Inle

L’omonimo villaggio che raggiungerete, Sankar appunto, custodisce preziosi resti di templi (non precisamente datati), apparentemente commissionati da un antico sovrano Shan che lì regnava e risiedeva.

Lago Inle

Sulla riva opposta una splendida  collezione di “zedi” (nome locale  dello stupa, monumento per antonomasia del culto buddhista) allineati in file parallele e simmetriche. Un luogo che vede scarsissima affluenza di turisti  e già, solo per questo motivo, degno di nota. Certo per raggiungere questi angoli di mondo si deve essere disposti a rimanere seduti per circa 3 ore (solo andata) sulle colorate seggioline di legno di una canoa a motore super vibrante!

E poi ancora a Nyangshwe è possibile affittare delle biciclette sgangherate (a volte sono talmente dure che si ha la sensazione di pedalare con il freno a mano tirato!) e seguire i percorsi che si diramano tutto intorno al lago; un modo questo per assaporare lentamente la vera essenza rurale della Birmania, “diversa da ogni altro paese da voi conosciuto” (Rudyard Kipling)

 

 

La Birmania che ho visto

La Birmania che ho visto 2000 1333 Sonia Sgarella

Era il 2009 quando da Sop Ruak, in Thailandia, guardavo al confine con la Birmania e provavo ad immaginarla, ma non ci riuscivo…

Mi trovavo nel cuore del cosiddetto Triangolo d’Oro, storico protagonista nella produzione mondiale di oppio e teatro del commercio estremamente remunerativo di stupefacenti. Oggi, luogo assediato dai turisti. Si tratta della tripla frontiera tra Thailandia, Birmania e Laos. In quest’ultimo c’ero appena stata e avevo fatto la conoscenza di una pace inaspettata. Il Laos, terra di monaci e monasteri, di grandi fiumi e di montagne, di villaggi rurali e di vita agricola. Lo vedevo li, oltre il fiume Mekong e lo salutavo dandogli appuntamento a chissà quando ma nella sincera convinzione che un quando, in futuro, ci sarebbe certamente stato. E poi di nuovo, mi voltavo verso la Birmania ma niente, continuavo a non immaginarla…

Vedevo solo alberi, una foresta rigogliosa ed interminabile. Non avevo mai letto niente a riguardo, potevo solo fare riferimento alle notizie di guerriglia armata contro il regime militare che ogni tanto mi giungevano all’orecchio; potevo solo pensare ai ragazzini birmani che, sulle spiagge della Thailandia, si offrivano di farti mille commissioni pur di raccimolare qualche Bath. Lo credevo un paese impenetrabile, forse pericoloso; a dir la verità, non ci avevo mai pensato. Certo non mi sarei mai aspettata, a soli quattro anni di distanza, di camminare per le sue strade e di percorrerne i sentieri nè mai avrei creduto di incontrare la Birmania che oggi ricordo con tanta ammirazione.

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Un paese che ha sofferto le ingiurie di una dittatura militare tra le più longeve e brutali al mondo. Un esercito di oltre 400 mila soldati “burattini” nelle mani di generali “burattinai” che ripetutamente hanno ordinato l’arresto e l’uccisione di centinai di cittadini birmani, monaci e laici, i quali hanno rischiato la vita per il diritto di decidere il proprio destino. Un paese che sicuramente soffre ancora perché vittima degli intrighi politici di un governo che si dice in via di democratizzazione ma che in verità, e sono in molti a sostenerlo, continua a tramare alle spalle del suo stesso popolo. Un paese che tuttavia soffre con un gran sorriso perché in fondo sa che la verità e l’amore trionferanno, così come è stato sempre nel corso di tutta la storia.

“Arriverà il giorno in cui tiranni e assassini, che per un certo periodo sono apparsi invincibili, cadranno” – disse il Mahatma Gandhi e sulla scia di questo pensiero la Birmania che io ho visto non dispera. Ho incontrato un paese gioioso, gente vitale, genuina, che speranzosa convive con la sua passata disperazione: due concetti ben diversi.

Chi viaggia per le strade del Myanmar, ne percorre i suoi sentieri, non incontra né miseria né degrado ma gente dignitosa che lavora per ricostruire il proprio futuro perché sa che non esiste alcun destino imposto ma solo quello che noi stessi ci guadagniamo con le azioni. Gente che canta, gente che si contorce dalle risate guardando cabaret e soap opera in tv, gente che è fiera del proprio paese e di quella “Signora” che ha fatto tanto per il suo popolo, guidando una delle rivoluzioni non violente più ammirevoli dei tempi moderni.

Aung San Suu Kyi, colei che impersona i quattro ingredienti fondamentali – secondo il buddhismo – per il successo e la vittoria: chanda, “desiderio o volontà”, citta, “l’attegiamento giusto”, viryia, “la perseveranza” e panna, “la saggezza”. Certo non è tutto lusso e magnificenza quello che si vede ma chi l’ha detto che ci sia bisogno di questo per  poter vivere serenamente? In Myanmar è un concetto molto più semplice che incomincia con il rispetto dei diritti umani…

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