Chi, tra di voi, non ha mai sentito parlare delle rovine di Angkor?
Pensate, la prima volta che questa parola giunse al mio orecchio, mi trovavo letteralmente dall’altra parte del mondo, in Bolivia. Era forse il giorno di Natale del 2006 quando un eccentrico ragazzo belga mi presentò una versione indubbiamente avventurosa della sua esperienza passata tra quelle che lui diceva essere le rovine più suggestive e impressionanti del mondo, assolutamente imperdibili!
Decine di templi, un tempo manifestazione di immensa grandezza di quei sovrani committenti che si elevarono allo status di divinità, rovine immerse in una fitta giungla tropicale che per lunghi secoli se ne riprese possesso fino a quando, alla fine del XIX secolo, cominciarono i lavori di conservazione e restauro del sito, portati avanti da una commissione internazionale di esperti e ricercatori, presieduta dagli ambasciatori di Francia e Giappone.
Affascinata oltremodo dai suoi racconti, non lasciai dunque passare troppo tempo, solo tre anni, prima di trovarmi finalmente anch’io a varcare i confini tra Thailandia e Cambogia, in direzione di Siem Reap, porta d’ingresso a quella che per molti costituisce oggi l’ “ottava meraviglia del mondo”, al magico e maestoso complesso dei templi di Angkor, degnamente incluso dal 1992 nella lista dei siti Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
Fu solo in seguito però, in conseguenza degli studi intrapresi in ambito “Indologico”, che cominciai a rimettere insieme i pezzi, foto, ricordi, miti e leggende – prima di allora certo affascinanti ma parte di un mondo a me ignoto e incomprensibile – per trovare numerosissimi punti di connessione tra quel sito, uno dei più vasti ed importanti dell’Asia e l’immenso, strano e stravolgente paese chiamato India.
Per oltre cinque secoli Angkor fu la capitale politica e religiosa di un regno, quello Khmer, che tra il IX e il XV secolo, arrivò ad estendere la sua influenza su buona parte degli odierni territori di Thailandia, Laos e Vietnam. Un impero allora, fondato da Jayavarman II (il “protettore della vittoria”), reso grande da Suryavarman II (il “protetto dal dio-sole”) e arricchito di templi da Jayavarman VII, l’ultimo dei grandi chakravartin, “re universali”, come erano soliti farsi proclamare.
Grandi nomi quindi e ancor più grandi epiteti, tutti di derivazione sanscrita, lingua ereditata da secoli di scambi commerciali e culturali intrattenuti con le più importanti dinastie dell’India del Sud, tra le quali i Pallava di Kanchipuram, i Chalukya di Badami e i Chola di Tanjavur. E’ quindi a loro che si deve la diffusione della religione induista nel Sud Est asiatico e con essa la concezione simbolica dell’architettura religiosa. Particolare devozione venne accordata inizialmente a Shiva e a Vishnu per essere sostituita tuttavia in seguito da quella al Buddha.
Ed è quindi sicuramente Angkor Wat, la “città-tempio” più grande e più bella dell’intero complesso, costruita da Suryavarman II nella prima metà del XII secolo, quella che per nessun motivo si dovrebbe mancare di visitare, ma questo è troppo scontato. Vi presento quindi gli altri cinque siti che nella mia classifica personale, vengono subito dopo questo:
— BAYON —
Situato all’interno di Angkor Thom (la “grande città”) – fondata da Jayavarman VII a cavallo tra il XII e il XIII secolo – il cosiddetto Bayon venne concepito come tempio di stato per la nuova capitale del regno che fu disegnata sulla falsariga di un mito cosmogonico, in modo che la costruzione materiale della città corrispondesse a un’autentica rinascita dell’impero dopo l’attacco subito dai vicini Cham.
Passando attraverso la monumentale Porta Sud, preceduta dalle non meno suggestive schiere di dei e demoni che delineano il ponte sul fossato difensivo, procedete fino al centro del quadrilatero e lì lasciatevi incantare dalla moltitudine di visi sorridenti, scolpiti sulle quattro facce delle guglie che si elevano sempre di più man mano che ci si avvicina alla massiccia torre centrale. Che siano la rappresentazione del Buddha, del Bodhisattva Avalokiteshvara o del re Jayavarman stesso, la profusione di volti pacifici regala al luogo un’atmosfera unica, carica di fascino e di mistero al tempo stesso.
— TA NEI —
Immerso nella fitta vegetazione, non lontano da Angkor Thom ma al di fuori dei circuiti prettamente turistici, il Ta Nei, costruito anch’esso da Jayavarman VII alla fine del XII secolo, è uno di quei luoghi che riporterà il vostro immaginario indietro nella storia. Vi sembrerà, di fronte a questo tempio lasciato cadere in rovina e per nulla frequentato, di aver scoperto un sito nuovo, abbandonato, dimenticato, ma non per questo meno affascinante. Anzi, sono proprio la solitudine e il silenzio che lo caratterizzano e lo circondano a donargli quell’atmosfera di sacralità che ancora pochi templi conservano.
— TA PROHM —
Uno dei maggiori templi di Jayavarman VII, concepito e costruito come monastero buddhista e centro di studio, da cui il nome originale Rajavihara, il “monastero reale”. Secondo alcune iscrizioni ritrovate in loco, la divinità principale, Prajnaparamita – la “perfezione della sapienza” – fu modellata sull’immagine della madre del sovrano, come parte del programma di venerazione della famiglia reale.
Scelto dalla École française d’Extrême-Orient per essere lasciato così come era stato trovato, il Ta Prohm costituisce un ottimo esempio di come l’intero complesso dovesse apparire al tempo della sua riscoperta nel XIX secolo nonostante molti sforzi furono fatti per stabilizzare le rovine e permetterne l’accesso ai visitatori. Enormi radici di alberi, intrecciati tra le rovine, sono protagonisti nel creare quell’atmosfera pittoresca di apparente trascuratezza che rende il luogo tanto suggestivo e speciale, a tal punto da essere stato scelto come location cinematografica nel film Tomb Raider.
— PREAH KHAN —
Come il vicino Ta Prohm, Preah Khan – costruito anch’esso da Jayavarman VII per essere sede di un’università buddhista – è rimasto in gran parte non restaurato e tra le rovine sono cresciuti alberi ed arbusti. Una serie di gallerie rettangolari concentriche circondano un santuario buddista con una torre centrale, ma la disposizione è resa meno lineare, quasi caotica, dalla compresenza di templi induisti satelliti dello stesso periodo e da numerosi altri aggiunti in seguito.
Dedicato questa volta al padre del re, Dharanindravarman, Preah Khan non fu solo un centro religioso, ma anche amministrativo e culturale. A partire dal 1991 la manutenzione del sito è stata assunta dal World Monuments Fund, promotore di una serie di campagne di restauro. Il World Monuments Fund ha continuato a mantenere un approccio genericamente cauto, nella convinzione che un’attività di restauro su larga scala sarebbe stata inevitabilmente invasiva e frutto di supposizioni, preferendo invece rispettare l’aspetto di edificio in rovina ormai connaturato al tempio.
— BANTEAY SREI —
A poco più di 20 km a nord di Angkor si trova il piccolo ma notevole tempio di Banteay Srei, il cui nome significa “cittadella della bellezza”. A differenza degli altri siti principali di Angkor, Banteay Srei non fu un tempio reale, bensì commissionato da uno dei consiglieri di Rajendravarman, padre di Jayavarman V.
Consacrato il 22 aprile 967 al dio Shiva, il tempio colpisce il visitatore per la bellezza della decorazione – caratterizzata da minuziosi dettagli scolpiti sulle facciate di arenaria rossa – che non può essere paragonata a quella di nessun altro tempio presente ad Angkor. Queste caratteristiche lo hanno reso particolarmente popolare tra i turisti tanto da essere stato definito “una gemma preziosa” o “il gioiello dell’arte khmer”.