India

I cinque “carri” leggendari di Mamallapuram

I cinque “carri” leggendari di Mamallapuram 2000 1333 Sonia Sgarella

“Madre, ho portato a casa un dono” – così si rivolse a Kunti un Arjuna vittorioso di ritorno dal grande swayamvara (pratica di selezione del futuro marito tra una rosa di contendenti) indetto dal re Draupada per trovare un degno marito a sua figlia. In un paese dove il rispetto alla madre supera anche il volere divino e in un tempo in cui la fede alla parola era un valore fondamentale, il terzo dei Pandava, eccezionale arciere, non poté fare altro che rispettare il comandamento inavvertitamente espresso da Kunti la quale, senza vedere di quale dono si trattasse rispose: “Qualsiasi cosa sia, il vostro dovere è quello di dividerlo tra di voi.” Fu così che Draupadi divenne la moglie di tutti e cinque i fratelli.

Figli di Pandu, legittimo erede al trono di Bharata, i cinque fratelli nacquero per mezzo di un potente mantra ricevuto da Kunti in giovane età, grazie al quale avrebbe potuto generare dei figli invocando a piacimento qualsiasi divinità. Nacquero così:

  • Yudishtira, figlio di Dharma (il dio della giustizia), di grande saggezza e dal forte senso di rettitudine;
  • Bhima, figlio di Vayu (il dio del vento), dalla forza sovrumana e invincibile nella lotta;
  • Arjuna, figlio di Indra (dio vedico a capo dei Deva, grande guerriero), impareggiabile nell’uso delle armi;

Kunti concesse poi l’uso del mantra alla seconda sposa di Pandu, Madri, e da lei nacquero:

  • Nakula e Sahadeva, figli gemelli degli Ashvin (i medici degli dei), di bell’aspetto e grande erudizione.

Ai cinque Pandava e alla moglie Draupadi è oggi dedicato un altro dei grandi capolavori di Mamallapuram: conosciuto col nome di “Five Rathas”, si tratta di un gruppo di cinque templi popolarmente chiamati appunto ratha, “carri”, come i veicoli processionali delle divinità. Ognuno di questi prende il nome di uno (o due nel caso dei gemelli) dei sei personaggi leggendari. Ricavati anch’essi come l'”Arjuna’s penance” (di cui l’articolo Mamallapuram: galleria d’arte a cielo aperto) da colline granitiche, quattro dei quali da un unico masso e quindi disposti sullo stesso asse, si tratta per la verità di cosiddetti vimana, il termine usato nell’India del sud per designare la cella del tempio contenente l’immagine sacra (murti) con la sua elevazione. Non vi è però nessun riferimento storico riguardo al rapporto di questi con i cinque fratelli Pandava. Si tratta invece di templi dedicati al culto delle divinità principali dell’induismo i quali tuttavia non vennero mai consacrati bensì, come accadde spesso a Mamallapuram, lasciati incompiuti.

IMG_5022(Da sinistra: tempio di Dharmaraja, tempio di Bhima, tempio di Arjuna e tempio di Draupadi)

Unica nel suo genere è la copertura del tempio chiamato di Draupadi, di fatto dedicato a Durga, assomigliante al tetto di paglia di una capanna di villaggio. Purtroppo, essendo ancora in una sorta di fase sperimentale, alcune forme, tra cui questa, non verranno più riproposte. Sulla parete di fondo della cella è raffigurata la dea: qui, diversamente che nel nord, i muri interni del sacrario non sono necessariamente disadorni.

IMG_5015(Da sinistra: tempio di Arjuna e tempio di Draupadi)

Il tempio di Bhima, di pianta rettangolare, ospita un’immagine non terminata di Vishnu disteso sul Serpente cosmico. E’ coronato da un tetto a botte. Una copertura simile la possiede anche il tempietto, non allineato agli altri e privo di scultura, noto con il nome dei gemelli Nakula e Sahadeva; questo tuttavia termina con un’abside in ricordo degli antichi santuari buddhisti.

Ma a fare scuola nell’architettura del sud saranno i templi detti di Arjuna, e soprattutto, di Dharmaraja (Yudishtira). Di pianta quadrata, presentano nella loro sovrastruttura riproduzioni in scala ridotta di edifici con tetti a botte (shala) e cieche finestrelle ad arco (chandrashala) le quali si allineano su diversi piani formando una piramide a gradoni che culmina con una pietra scolpita (stupi). I templi sono affiancati da grandi sculture di animali quali un leone e elefante che non necessariamente rappresentano il veicolo divino della divinità a cui è dedicato il tempio.

IMG_5020(tempio di Nakula e Sahadeva)

Tirumala-Tirupathi: dove la sacralità si respira nell’aria

Tirumala-Tirupathi: dove la sacralità si respira nell’aria 150 150 Sonia Sgarella

Forse non basterà tornarci cento volte per capire l’India ma questo non deve scoraggiarvi. Fate il possibile per acquisirne anche solo una piccola parte, concesso il fatto che spesso è proprio ciò che non comprendiamo che ci affascina e ci stimola. Non demordete, perché vi renderete presto conto di quanto l’India sia necessaria per far rivivere in noi quella spiritualità di cui ci siamo volutamente privati, che con feroce convinzione abbiamo espulso dalle nostre vite, troppo occidentali, egocentriche, troppo razionali e indipendenti per poter ammettere l’esistenza di un’entità superiore a cui potersi aggrappare, anche solo sporadicamente.  In India basta respirare per percepirne la presenza: è qualcosa che pervade l’aria, che si espande. Ci tocca e ci percuote. E’ come un’onda, un terremoto, un’antica vibrazione che ci attraversa, capace di legare a sé qualunque cosa incontri sul suo percorso. Ogni volta che tornerete in India ci sarà sempre un nuovo spettacolo pronto a sorprendervi, anche quando presuntuosamente crederete di aver già visto tutto. Munitevi di innocenza e rimarrete incantati dalla semplice vista del mare, di un fiume, dell’acqua, fonte di vita, incantati dal paesaggio mutevole, dall’orizzonte che si allontana a perdita d’occhio man mano che risalirete il versante di un’altura per raggiungerne la vetta, perché è lì, si sa, che dimorano gli dei. Vi stupirà la gente, l’incessante movimento della folla, incorruttibile devota che, nonostante i cambiamenti sociali e la modernizzazione, rimane fedele perpetuatrice di una tradizione millenaria che non solo sopravvive ma regna sovrana in ogni angolo dell’India. Ma vi sono alcuni luoghi letteralmente intrisi di sacralità che, più di altri, non potrebbero lasciare indifferente neanche il  più scettico tra i profani: luoghi dove ogni  giorno migliaia di pellegrini si accalcano, noncuranti del tempo che scorre, al solo scopo di guardare la divinità dritta negli occhi e da questa essere visti perché li possa riconoscere come suoi devoti. La visione durerà solo pochi istanti ma avverrà nella più profonda e sincera convinzione che proprio lì, in quel momento, il dio abbia deciso per sua grazia di mostrarsi in terra. Il tempio di Venkateshwara a Tirumala, nell’Andhra Pradesh è uno di quei luoghi: qui la vibrazione si fa più intensa e le code per accedere al tempio possono durare anche mezza giornata. Visnu, sotto forma di “Signore che libera dai peccati” appare magnificamente ornato di oro e ghirlande che risplendono e lo illuminano nella luce soffusa della cella donandogli un’aurea di mistica trascendenza. L’inno a Govinda si fa sempre più incalzante quando, dopo ore di attesa nel labirinto di gabbie metalliche, la folla di fedeli giunge finalmente al cospetto divino portando con sé ognuno il proprio desiderio da esprimere. Giovani, anziani e bambini appena nati, uomini e donne, rinunciano al proprio ego di fronte all’immensità del divino. Sono forti di un amore incondizionato e molti di loro lo dimostrano omaggiando la divinità con i propri capelli attraverso la totale tonsura del capo operata delle decine di barbieri e barbiere che lavorano nelle strutture del tempio. Lo fanno perché credono, lo fanno perché è giusto, lo fanno soprattutto perché devono  in quanto hindu. Non importa essere poco attraenti, i capelli sono solo un accessorio, un effimero attributo illusorio; sono solo un’altra vanità materiale di poco, pochissimo conto di fronte alla superiorità divina.

Tirumala è facilmente raggiungibile da Tirupathi, a fondo valle, dove si trovano la maggior parte delle sistemazioni alberghiere. Raggiunta la stazione degli autobus dirigetevi verso il settore di partenza delle navette che effettuano il servizio di collegamento tra le due località. Un biglietto di andata e ritorno vi costerà 82 rupie (1 euro). Il tragitto, della durata di non meno di 40 minuti (obbligo imposto dalle autorità preposte al controllo del servizio per motivi di sicurezza) prevede la risalita dell’altura di Tirumala e vi darà modo di godere di viste spettacolari dai finestrini di sinistra.  Una volta raggiunta l’area del tempio cercate l’accesso alla corsia dello Special Darshan che al costo di 300 rupie vi permetterà di risparmiare qualche ora di coda. Ai turisti verrebbe anche data la possibilità, previa presentazione del passaporto, di accedere alla corsia VIP e di accorciare ulteriormente il percorso di ingresso ma se siete interessati a vivere l’esperienza del pellegrino hindu evitate questa opzione. In fondo cosa saranno mai 4 ore di attesa! Dalle grate delle gabbie metalliche vi verranno offerti cibo, acqua e latte bollito, opuscoli e quotidiani anche in inglese! I bagni sono disponibili lungo il percorso.

P.s Preparatevi a essere spinti ma soprattutto non fatevi scrupoli a spingere!

Gange: il fiume della vita

Gange: il fiume della vita 150 150 Sonia Sgarella

Il Gange nasce dalla catena montuosa più alta del mondo, l’Himalaya, dove molte vette superano i 6000 metri di altezza e sono perennemente coperte di neve e di ghiaccio. Gli oltre 15000 ghiacciai fanno di questi monti il serbatoio d’acqua dolce più vasto del mondo dopo i Poli. Il ghiacciaio Gangotri è uno dei più grandi che si estende per oltre 30 kilometri riempiendo di ghiaccio solido un’intera valle. Il fronte del ghiacciaio è chiamato Gaumukh, “la bocca della vacca”, perchè l’acqua che scorre sotto l’ampia lingua glaciale, è di un bianco lattiginoso. Per gli induisti questa è la sorgente del Gange, luogo dove solo i pellegrini più coraggiosi e robusti vengono a pregare Dio. Si dice che chi beva l’acqua del Gange a Gaumukh possa vivere cent’anni. Ma il Gange in realtà sgorga oltre il ghiacciaio a quasi 4500 metri di quota, dove solo pochi animali riescono a sopravvivere. Tra questi il Bharal, preda prediletta del Leopardo delle Nevi.

Secondo la mitologia induista in origine Ganga, la Dea del fiume, scorreva in cielo. Il pio re Bhagiratha aveva bisogno dell’acqua per purificare le ceneri dei suoi antenati che erano stati arsi dalla furia del saggio Kapila. Brahma acconsentì che la Dea Ganga scendesse sulla terra ma avvertì anche che la sua forza torrenziale avrebbe potuto spazzare via il mondo. Bhagiratha implorò allora l’aiuto di Shiva, il quale pose i suoi capelli arruffati lungo il percorso del fiume celeste. La massa di riccioli rallentò la forza distruttiva di Ganga e suddivise il flusso immenso in un migliaio di corsi d’acqua più piccoli. Il giovane Gange che scorre dal ghiacciaio Gangotri viene chiamato Bhagirathi in onore del re che portò la Dea del fiume sulla terra.

Cinquanta kilometri più a valle il turbolento Bhagirathi incontra il calmo e fangoso Alaknanda. Prima di fondersi i due corsi d’acqua scorrono l’uno accanto all’altro per 200 metri e solo allora il fiume prende il nome di Gange. Le acque impietose si calmano quando il fiume raggiunge le pianure gangetiche liberando i sedimenti trasportati dai ghiacciai. Il Gange deposita ogni anno 1,6 milioni di tonnellate di sedimenti, il quadruplo del Rio delle Amazzoni dando così vita a una delle terre più fertili del mondo. Il bacino del fiume si estende per un milione di kilometri quadrati nell’India nord-orientale, dove la maggior parte delle pianure alluvionali è stata destinata all’agricoltura. Ma fra i tributari più estremi del fiume , in una regione nota come Terai, sono rimasti dei lembi di praterie selvagge. Qui dimora uno degli animali più grandi del mondo: il Rinoceronte Indiano, i cui maschi posso arrivare a pesare anche 3 tonnellate. Nel bacino del fiume vivono quasi 500 milioni di persone, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Qui l’acqua del Gange, per natura fangosa, è resa ancora più melmosa dagli scarichi dell’agricoltura e dell’industria, eppure nelle sue acque ci vivono, o meglio, sopravvivono diversi animali. Uno di essi si lascia vedere così di rado da essere diventato quasi mitico: il Delfino di fiume del Gange, i cui occhi hanno perso quasi totalmente la vista a causa della scarsa visibilità in acqua. Ma lo schivo delfino non è l’unica strana creatura del fiume; insieme a lui vive ancora uno dei coccodrilli più grandi del mondo: Il Gaviale del Gange ,i cui maschi possono raggiungere i 6 metri di lunghezza senza però rappresentare una minaccia per l’uomo. Piuttosto, è l’uomo stesso la minaccia di questo animale preistorico che oggi conta solo circa 200 esemplari che con fatica sopravvivono alle pressioni della razza umana sul suo habitat. Ma, nonostante queste contraddizioni, la venerazione, la protezione e l’alimentazione degli animali sono la chiave della fede induista. Dar da mangiare ai gabbiani, per esempio, è un rito che alcune persone ripetono quotidianamente in quanto considerato un dovere da induista che le aiuterà ad ottenere un’esistenza migliore nella prossima vita. La reincarnazione è il credo fondamentale dell’induismo e non c’è posto in cui questo sia più evidente di Varanasi. Varanasi sorge sulle rive del Gange ed è considerata il luogo più sacro dell’India. E’ una delle città più antiche del mondo, dove la gente si reca per immergersi nel fiume da più di 3000 anni perchè si crede che l’acqua, qui in particolare, lavi i peccati e purifichi l’anima. Ogni induista sogna di recarsi sul Gange ma per molti di coloro che giungono a Varanasi si tratta dell’ultimo viaggio. Varanasi è infatti la città della morte. Secondo l’induismo ogni anima è imprigionata in un perpetuo ciclo di vita, morte e rinascita, noto come Samsara. La morte è solo un anello della catena. L’aroma del legno di sandalo, dell’incenso e del ghee, il burro chiarificato, qui riempe l’aria. Le pire funebri ardono continuamente. Varanasi è considerata la porta che unisce cielo e terra; si crede che morire ed essere cremati qui liberi l’anima dalla sofferenza delle vite ripetute e le consenta di raggiungere immediatamente il Moksha, la liberazione. In media hanno luogo ogni giorno 250 cremazioni e le ceneri di migliaia di morti vengono gettate ogni anno nel Gange. I pellegrini si lavano mentre pregano e inquinano mentre si purificano. Il Gange è infatti uno dei fiumi più inquinati del mondo eppure il potere della sua acqua di alimentare la vita è noto da centinaia di anni. Oggi, malgrado l’immenso numero di persone che si radunano a fare il bagno proprio dove le acque di scolo si riversano nel fiume, non sono state registrate epidemie di malattie gravi come il colera o il tifo. Gli induisti insistono sul fatto che il Gange abbia il potere di purificare e forse questa credenza ha qualche fondamento. Il Gange fornisce migliaia di miliardi di litri d’acqua all’agricoltura e all’industria e porta via i rifiuti di milioni di persone ma nonostante questo gli induisti ne bevono ogni giorno l’acqua e sostengono che, ben lungi dal farli ammalare, garantisca loro la salute fisica e mentale. I ricercatori hanno studiato questo paradosso e sembrerebbe che il Gange contenga un disinfettante naturale in grado di uccidere i germi patogeni che causano le malattie. E’ stata identificata la presenza  di batteriofagi, organismi microscopici che si nutrono di batteri. Quando trovano cibo, i batteriofagi si moltiplicano ad una velocità incredibile: in meno di mezz’ora, cento batteriofagi possono diventare 100.000. Più gente entra in acqua quindi, più cibo è disponibile per i batteriofagi del Gange che in un’invisibile frenesia alimentare eliminano i batteri prima che possano diffondere le malattie. Inoltre le analisi dimostrano che il Gange contenga una quantità insolitamente alta di ossigeno dissolto che aiuta a decomporre i rifiuti umani e animali riversati nel fiume. Il Gange lo fa 25 volte più velocemente di qualsiasi altro fiume e potrebbe essere per questo motivo che gli animali riescono a sopravvivere. Qui i rifiuti organici vengono decomposti in sostanze nutrienti che sono utili e non dannose all’ambiente.

Proseguendo lungo il suo corso, al confine tra India e Bangladesh, il Gange forma quindi il delta più grande della terra. Creato dalla confluenza del Gange, del Brahmaputra e del Meghna, questo super-delta è un labirinto di canali e insenature al cui interno si trovano le paludi e le foreste di mangrovie più estese del mondo: le Sundarbans. Qui, mentre i fiumi riversano nel Golfo del Bengala fanghi e sedimenti, le maree dell’oceano sommergono ogni giorno le foreste con l’acqua salata dando origine a uno degli habitat naturali più ostili del pianeta. Di nuovo, nonostante le difficili condizioni ambientali, diverse speci di animali riescono a sopravvivere in questi luoghi e, tra questi, la famosa Tigre del Bengala. Le Sundarbans sono uno degli ambienti più selvaggi del pianeta, eppure, l’Isola di Sagar, a pochi kilometri di distanza diventa la sede di uno dei raduni di persone più grandi del mondo: nel punto in cui il Gange, alla fine del suo corso, raggiunge il mare e si riversa nel Golfo del Bengala, in occasione del Festival di Makar Sankranti, a metà gennaio, i pellegrini qui si radunano per ringraziare il Gange di tutto quello che regala all’uomo. E’ un grande addio a un fiume che ha avuto un ruolo fondamentale nella vita delle persone e della natura dell’India.

(Fonte: Documentario “Gange-il fiume della vita”)

Kirtimukha, il “volto di gloria”

Kirtimukha, il “volto di gloria” 1600 1063 Sonia Sgarella

Quante soglie ho attraversato senza mai preoccuparmi della sua presenza e quante, forse, ne avrete varcate anche voi, incuranti del suo sguardo terribile. Eppure lui era li, attento ad osservarvi e a permettervi l’accesso nei luoghi sacri di India, Nepal, Bhutan, Cambogia, Cina e non solo. Lui, il macabro e terribile guardiano della soglia, conosciuto con il nome sanscrito di Kirtimukha, il “volto di gloria“, protezione per i pii, feroce contro i demoni. Racconta il mito che il grande re titano (asura) Jalandhara, eterno nemico degli dei, in virtù di straordinarie pratiche ascetiche, avesse sviluppato in sé poteri irresistibili. In un terribile eccesso di superbia, Jalandhara inviò Rāhu, suo demone messaggero, per sfidare e umiliare il grande dio in persona, Śiva, il creatore, sostenitore e distruttore del mondo. La sfida prevedeva che Śiva rinunciasse al suo splendido gioiello, alla sua futura sposa, Pārvatī, la “bella fanciulla dei tre mondi”, e che la consegnasse immediatamente al re titano. Nel momento in cui Rāhu annunciò la pretesa di Jalandhara,  Śiva, dal terzo occhio situato fra le sue sopracciglia, fece si che la sua potenza prorompesse in un’esplosione tremenda e che da questa prendesse forma un demone raccapricciante, il cui corpo inquietante, sottile ed emaciato, annunciava una fame insaziabile. Rāhu, consapevole del proprio inevitabile destino, si affidò allora alla benevolenza del grande dio affinché lo risparmiasse. La supplica fu accolta, Rāhu fu graziato lasciando così la mostruosa creazione di Śiva  con una fame terribile e nessun cibo in grado di saziarla. Il grande dio suggerì quindi al mostro di nutrirsi della carne del proprio corpo, cosicché la creatura vorace mangiò e mangiò sino a che di lui non rimase che il volto. ” Che tu sia conosciuto come volto di gloria” -dichiarò benevolmente Śiva- “e che tu rimanga sempre davanti alla mia porta. Chiunque trascuri di adorarti non otterrà mai il mio favore”.

Ben presto il “volto”, da emblema particolare di Śiva che era, cominciò ad essere usato indiscriminatamente nei luoghi dove la fede induista e buddhista ( che con la prima condivide numerose tradizioni e simboli) si diffusero nei secoli. Il devoto che varca la soglia di un tempio, di un monastero o di una casa, oggi saluta il “volto” con fede e fiducia perché sa che il Kirtimukha “è un segno e un agente della collera della divinità protettrice che distrugge i demoni e ci difende dalle forze tiranniche del mondo vorace”(Heinrich Zimmer).

La prossima volta che vi capitasse di incontrarlo sullo stipite di una porta, raffigurato nell’atto di “ingoiarsi”, dunque soffermatevi, salutate con riverenza, chiedete “permesso” e, se il permesso vi verrà concesso, solo allora procedete; vi sentirete meglio sapendo di rientrare nella cerchia degli esseri da proteggere piuttosto che dei demoni da combattere!

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