Mi è stato insegnato all’università che per raggiungere i vertici di perfezione nella scultura e nell’architettura templare dell’India del Nord, bisogna mettersi in cammino verso il piccolo villaggio di Khajuraho, nello stato del Madhya Pradesh. Capite dunque perché – rispondo a quanti me lo hanno chiesto – io non ci fossi mai stata prima? I templi di Khajuraho costituivano per me l’apice di un percorso di studi, una meta da raggiungere ben preparata, la “ciliegina sulla torta” che volutamente ho lasciato come una delle ultime tappe per un ennesimo viaggio in India.
I templi dell’India, come già vi raccontavo in altre occasioni, si dividono in tre categorie principali, nagara, vesara e dravida, ognuna delle quali con le sue peculiarità architettoniche più o meno marcate e al cui interno ricadono le varianti locali di ciascuna: negli Shilpashastra, antichi trattati di architettura e scultura, il tempio classico dell’India del Nord, viene definito con il termine nagara (“cittadino”) che vede come elemento caratteristico e marcatamente visibile, la presenza di una guglia torreggiante (shikhara) a sovrastare la cella custode dell’immagine sacra. Khajuraho è il luogo che conserva le forme più compiute e più eleganti in assoluto di tutti i templi nagara sopravvissuti fino ai giorni nostri!
Ancora oggi un piccolo villaggio immerso nella meravigliosa campagna dello stato del Madhya Pradesh, Khajuraho, l’antica Khajjuravahaka (“quella che ha tanti alberi di palma”), fu un tempo la capitale del regno dei Chandella, i quali si affacciarono alla storia verso l’inizio del X secolo, prosperando nella regione del Bundelkhand (oggi divisa tra Madhya e Uttar Pradesh) fino all’inizio delle conquiste islamiche, intorno al 1200. Il mecenatismo di questi sovrani, per i quali la costruzione di un tempio era il mezzo privilegiato per affermare, legittimare e glorificare il proprio potere, li portò a commissionare in questa zona oltre 80 templi, di cui se ne conservano intatti ancora una trentina, uno più bello dell’altro!
Compatti e slanciati verso il cielo, i templi di Khajuraho si distinguono per l’enfasi sulla dimensione della verticalità che viene data sia dalla presenza dello svettante shikhara sia dall’alto basamento su cui poggiano e sul quale il visitatore deve salire per poter compiere la circumambulazione rituale (pradakshina) prima di accedere all’interno, verso la cella sacra. Si racconta che originariamente i templi di Khajuraho fossero come isole, circondati dalle acque di un lago ornamentale di cui il famoso viaggiatore marocchino Ibn Battuta, che arrivò in India nel XIV secolo, ne racconta la grandezza. Oggi purtroppo di quel lago non vi è più traccia ma, in compenso, i templi – così come è tipico di tutti i monumenti protetti dall’Unesco – si trovano immersi nel verde di curatissimi giardini dove è piacevole passeggiare.
Se la perfezione delle forme architettoniche ha garantito ai templi di Khajuraho un posto d’onore nella storia dell’arte dell’India, è tuttavia la straordinaria ricchezza della decorazione scultorea a rendergli il titolo di capolavoro: la sensualità e la morbidezza delle forme, l’eleganza dei dettagli ma sopratutto il tema erotico di alcune immagini sono ciò che porta i templi ad eccellere nel loro genere, ciò che stupisce il visitatore e che ha reso Khajuraho una delle mete turistiche più frequentate di tutto il Subcontinente, il luogo dove divinità dell’induismo, provocanti “bellezze celesti” (surasundari) e animali dalle forme fantasiose, condividono le pareti esterne del tempio con uomini e donne in esplicito atteggiamento erotico, segno che al tempo il sesso veniva considerato come un atto da non trascurare, anzi, come un arte da coltivare e valorizzare!
Si è dibattuto a lungo sul significato che volessero trasmettere i committenti con questa profusione di rilievi raffiguranti amanti in ogni genere di atto sessuale, scene di gruppo, a volte addirittura con l’inclusione di animali. La domanda che sorge spontanea è: come possono queste immagini conciliarsi con la sacralità dell’edificio religioso su cui si trovano? Per poter dare una risposta a questa domanda è necessario elencare ed approfondire alcuni punti fondamentali:
Innanzitutto, nonostante la questione sessuale in India sembri essere un tabù più oggi che nell’antichità, questo non significa che l’induismo sia una religione tutta improntata all’ascetismo né tanto meno che preveda la castità per i suoi devoti; al contrario, all’amore umano in tutte le sue sfaccettature viene riservato un ruolo molto importante nella dottrina, la quale vuole infatti che ogni uomo debba perseguire tre scopi nella vita (trivarga), di cui kama, parola che significa sia “amore” che “desiderio sessuale”, è uno di essi. Non solo: come agli altri scopi (artha, il benessere economico e dharma, la legge sacra), anche al kama è dedicata una vasta letteratura, che vede nel celebre Kamasutra il suo massimo rappresentante. Composto da Vatsyayana attorno al III secolo d.c., il Kamasutra vuole essere un manuale al raggiungimento della felicità amorosa, non soltanto legata al desiderio sessuale – cosa che in tanti pensano erroneamente – ma piuttosto sensuale, ovvero collegato anche alla musica, al buon cibo, ai profumi e così via, in un contesto sociale colto ed elegante.
L’immagine delle donna e la sua associazione a fertilità e abbondanza è inoltre considerata fonte di buon auspicio e per questo, la sua rappresentazione sui templi, è resa necessaria. Si ritrova scritto nei testi: “Come una casa senza una moglie, un monumento senza una figura femminile sarà di qualità inferiore e non porterà ad alcun frutto”. I templi di Khajuraho contano definitivamente più sculture di immagini femminili che di divinità: alte, snelle, provocanti e maliziose ma mai volgari, dalle forme sinuose e abbondanti, con gli occhi allungati, i gioielli vistosi e le più varie acconciature, le “bellezze celesti” di Khajuraho, con le loro posture sensuali, trasmettono calore ed esprimono vitalità, quasi fossero reali. Così come la donna è simbolo di fertilità, allo stesso modo dunque, si ritiene lo sia anche la coppia (mithuna), considerata fonte di buon auspicio. A provarlo il fatto che immagini di coppie, si ritrovano già in contesto buddhista, risalenti al I secolo d.c.
La sessualità umana, nel corso dei secoli, comincia ad essere valorizzata come uno strumento volto al superamento della dualità dei sessi e al ricongiungimento di questi nell’Unità Assoluta, ovvero come fonte di risveglio spirituale e mezzo per il raggiungimento della liberazione, cosa che trova ampio supporto nella corrente salvifica e ritualistica definita col nome di tantrismo, affermatasi nel corso del I millennio sia in ambito induista che in ambito buddhista. Secondo questa concezione filosofica l’unione sessuale della coppia umana – intesa letteralmente o metaforicamente a seconda delle sette – altro non è che uno strumento evolutivo della coscienza, una forma di meditazione dove il corpo possa servire da mezzo salvifico. Durante il X secolo, nel periodo di inizio della costruzione dei templi di Khajuraho, sembrerebbe che la setta tantrica dei Kaula, devoti di Shiva, fosse all’apice della sua popolarità e che gli stessi sovrani Chandella ne fossero patroni. I maestri Kaula sostenevano la pratica di rituali esoterici con l’ausilio delle cosiddette “cinque cose che cominciano per emme” (panchamakara), ovvero matsya, il pesce, mamsa, la carne, madya, l’alcol, mudra, i cereali abbrustoliti e ovviamente maithuna, l’unione sessuale, tutti elementi considerati altamente contaminati in ambito ortodosso brahmanico.
E’ comunque importante notare che le immagini erotiche non coinvolgono mai figure divine e sono rappresentate solo all’esterno del tempio il quale, con la sua struttura e il programma scultoreo che lo adorna, si propone di essere un’immagina complessiva del mondo, se non addirittura dell’universo al cui centro, secondo la tradizionale cosmologia hindu, si innalza la montagna sacra del Monte Meru, rappresentata in questo caso dallo shikara torreggiante. All’esterno del tempio viene dunque rappresentata la vita di tutti i giorni ed è proprio qui che gli scultori si sbizzarrirono nella rappresentazione dell’immagine femminile intenta nelle più svariate attività: c’è quella che si specchia, quella che si trucca, quella che si toglie le spine dal piede, che si pettina, che scrive, etc etc. e tra queste le immagini erotiche, forse concepite per diversi livelli di comprensione: uno più popolare, riconducibile alla teoria del trivarga e uno più esoterico, riconducibile invece alla visione tantrica. Dall’esterno manifesto all’interno non-manifesto, l’ingresso al tempio vuole simboleggiare la ricongiunzione con il divino che è lo scopo di tutti i percorsi spirituali.
Non vi è dunque una risposta univoca né di facile interpretazione al perché della presenza di tali sculture: ciò che è sicuro è che non vi è nulla di osceno in esse e che, se l’effetto voluto era quello di portare alla riflessione sull’importanza del tema amore/sesso, i templi di Khajuraho ci riescono alla perfezione!
Le immagini erotiche comunque non sono presenti su tutti i templi bensì solo su quelli appartenenti al cosiddetto “gruppo occidentale”. I templi di Khajuraho si dividono infatti in tre gruppi, occidentale, orientale e sud che assolutamente valgono tutti la pena di essere visitati, ancor meglio se durante le prime ore del mattino quando la luce del sole ne illumina le pareti e le celle sacre e quando ancora non sono stati invasi dalle orde dei gruppi organizzati.
Sforzatevi dunque di svegliarvi all’alba per cominciare a godervi le meraviglie di Khajuraho e, perchè no, partite pure dal più antico tra tutti i templi, lo Chausath Yogini, prova tangibile del fatto che la zona fosse una tra le aree di diffusione del culto tantrico.
Godetevi poi la tranquillità dei gruppi sud e orientale, visitate il Chaturbhuj, il Duladeo, il Parsvanath e il Vamana Temple; concludete quindi con quelli del gruppo occidentale, qui dove l’arte si fa sensuale e perfetta, qui dove i templi raccontano una storia, quella di una grande dinastia ma soprattutto quella di tanti abilissimi scultori i cui nomi non è dato ricordare ma il cui spirito sopravvive ancora nella roccia.
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